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Per quanto mosso da un narcisismo incontenibile e da un senso di onnipotenza che non conosce limiti, sia nell'arte amatoria che nel governo della cosa pubblica, Silvio Berlusconi non puo' ragionevolmente essere considerato il cinico, diabolico responsabile dei mali che affliggono da millenni il rapporto tra i sessi.

C’è una cosa che stupisce molto nell’intervento di Angelo Panebianco su moralismo e riformismo (Corriere, 11/08). E’ la sicurezza con cui afferma che chiunque ponga al dibattito politico una questione morale si rende responsabile "di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre". Stupisce, perché filosoficamente la questione dei rapporti fra morale e politica è talmente aperta che non è veramente legittimo liquidarla con un paio di battute, mi perdoni Panebianco, tanto sbrigative quanto sprezzanti, neppure nello spazio di una polemica. Tanto più se è vero, come è vero, che è soltanto una fra le posizioni filosofiche in gioco anche la posizione dell’autore: un realismo politico apparentemente associato a un relativismo valoriale e morale, presumibilmente fondato su uno scetticismo radicale (l’ "ineliminabile ambiguità, anche morale" del mondo) in materia di oggettività dei giudizi di valore e/o di fondazione delle norme.

Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 maggio 2006]

Sono passati quarant'anni dall'inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa. Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile. Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subito trent'anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell'ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell'interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti, del marxismo critico e antistalinista, della lunga lotta dei popoli asiatici e africani, nel secondo dopoguerra, per formare un fronte di "terzo mondo" disimpegnato dai due blocchi di potenza (distrutto al prezzo di un milione di morti in Indonesia fra il 1965 e il 1966, ad opera dei servizi segreti Usa).
Sbaglia chi lamenta l'assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le "menzogne viventi" di cui scriveva Sartre nel '62, lanciate dalle città d'Europa in Africa, in Asia: ´"artenone! Fraternità!", risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei "variopinti legami" della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano "mercato" per non usare il termine "capitale", che sarebbe più corretto.

Le polemiche relative a Pacs e DICO sono sicuramente sezionabili su più livelli e forse il più interessante è il problema sempreverde del rapporto tra etica pubblica ed etiche private. A questo proposito si può citare la rilettura del pensiero del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) fatta dal filosofo Cacciari nella prefazione alla ristampa de “La politica come professione” Mondadori 2006. In una intervista rilasciata a Panorama il 9-3-06 così ha risposto ad alcune sollecitazioni.
(Ida Tesconi, portavoce dell'AAdP)

Weber può ancora servire a risolvere le contraddizioni della politica che stiamo attraversando?
E’ il modo giusto per affrontare oggi il problema della democrazia.Direi di più:della democrazia in crisi.Una lezione di grande realismo,in primo luogo. Cosa evidenzia Weber? La straordinaria complessità e perciò fragilità del regime democratico può essere affrontata solo attraverso una sofisticatissima combinazione fra etica e politica. Altrimenti,questo essere in crisi permanente della democrazia si trasforma nel caos,proprio nel senso del casino.

Ancora Beppe Grillo? Sì, con qualche osservazione sulla libertà.
di Mario Pancera
L'agitatore politico americano John Brown, che nel 1859 perse la vita combattendo per la libertà degli altri, sosteneva che la schiavitù è uno stato di guerra. Anche l'ignoranza è una schiavitù ed è essa stessa uno stato di guerra. La volgarità è una figlia dell'ignoranza e rappresenta un contorcimento su se stessi: l'incapacità di spiegare le proprie necessità e i propri sentimenti in maniera umana, civile, costruttiva.

La volgarità è improduttiva, porta alla distruzione, non alla costruzione. Non ha esiti positivi. La volgarità non propone, è come un'esplosione inconsulta, anche se proviene da motivi lontani e non disprezzabili, anzi condivisibili. Porta alla regressione. È come un «fuoco amico» che sconvolge le file di chi combatte una battaglia per un fine comune.

Il «Vaffanculo day» dell'attore Beppe Grillo ha come sigla il V-day del politico Winston Churchill, che significava Victory day per gli eserciti alleati nella seconda guerra mondiale. È facile da ricordare ma, come si vede, è tutt'altra cosa. Nella seconda guerra mondiale le democrazie occidentali (i partiti che le formavano, gli uomini che a loro volta formavano e votavano questi partiti) si battevano contro le dittature, contro i fascismi (dove esisteva un solo partito, egemone, cui tutti i cittadini dovevano sottostare).

Era una sigla per la libertà, in mezzo a un mondo sconvolto. Il V-day di Beppe Grillo, dei suoi autori, amici ed estimatori, sembra un'espressione liberatoria, ma è un'espressione di impotenza. È un grido violento, un coro stonato. Nella seconda metà del XX secolo, continuando nella loro durissima battaglia, le democrazie occidentali (i partiti che le formavano, i cittadini che vi credevano) hanno contribuito a far sì che mezzo mondo si liberasse dallo stalinismo, una dittatura disumana come le precedenti che avevano contaminato l'Europa.

L'umanità procede col senso della libertà, non con l'ideologia della distruzione e della volgarità. Lo si vede anche su larga scala, sul piano internazionale: la distruzione - da qualsiasi parte reclamata - non libera, uccide. Porta la morte, anche fisica, non la vita. Non c'è bisogno che lo dicano i sociologi. Con la volgarità figlia dell'ignoranza si agitano forse le masse, non si liberano i popoli. L'indignazione deve stimolare il cervello, non ottunderlo.

L'espressione di Grillo non è comica, è tragica. Non fa ridere: va discussa e rigettata. Ricorda la perentorietà volgare del «Me ne frego» usato dai cosiddetti arditi della prima guerra mondiale e poi assunto negli anni Venti dai fascisti di Mussolini. Nelle sedi fasciste questa frase era scritta sui muri e appariva accanto a bandiere nere con teschi dal pugnale tra i denti. È assolutamente il contrario del milaniano motto «I care» della scuola di Barbiana. A quel «Me ne frego» seguì «Ordine, autorità, giustizia» per finire nel mortale «Credere, obbedire, combattere».

Mario Pancera

Quattro incontri in quattro zone diverse della diocesi, ma uno stesso titolo "Il bene comune del territorio apuano": è questa l'offerta che l'Azione Cattolica, in stretta collaborazione con l'Ufficio per la Pastorale Sociale e del Lavoro, fa alla chiesa locale con la Settimana Sociale.

L'Italia partecipa a diverse guerre nel mondo, con migliaia di militari armati e organizzati nelle cosiddette «missioni di pace». Se è vero, cioè se queste missioni servono a fermare le guerre in qualche parte sia pure infinitesimale del globo in cui sono impegnate, un giorno ci verranno dati i risultati. Al momento, purtroppo, sembrano scarsi quelli positivi, pallide lucine in mezzo al buio di centinaia di migliaia di morti, feriti, dispersi, profughi, odii, ritorsioni, fuoco amico, focolai di terrorismo, bombardamenti preventivi, omicidi mirati, kamikaze e così via.

Ora le missioni di pace si diffondono anche nella penisola: sono missioni di pace per la sicurezza dei cittadini nei confronti dei poveri. Le organizzano le istituzioni pubbliche, ovvero quei sindaci e presidenti di provincia e di regione (alcuni tronfi personaggi si lasciano chiamare, e addirittura a volte si autodefiniscono, «governatori») che sono eletti direttamente dal popolo. Ripeto: direttamente, e già qui occorrerebbe una riflessione decisa sui metodi elettorali detti democratici, dove vincono sempre i personaggi più facoltosi o intriganti.


Chi ha più denaro ha più istruzione, più potere, più amici, più capacità di ammassare dietro di sé tutti coloro che hanno meno potere, meno istruzione, meno amici ma vogliono sentirsi parte di questo gruppo dominante. Il gruppo dominante promette sempre di creare ricchezza nell'ordine e nella sicurezza. Siamo attenti alle parole: «creare ricchezza» (creare, come dio), «ordine e sicurezza». Un galantuomo non può predicare di essere in grado di «creare ricchezza» spingendo gli esseri umani a lottare tra di loro per un lavoro precario o sottopagato, e nessuno che non abbia animo di despota può pensare a missioni di pace per garantire «ordine e sicurezza» cacciando dalle strade i poveri, italiani o stranieri.


Negli anni del fascismo, in Italia la malavita organizzata e i poveri non c'erano, semplicemente perché il regime imponeva che non se ne scrivesse. Le operazioni contro l'una e gli altri esistevano, ma non se ne parlava. La stampa era imbavagliata. Si pacificava, per così dire, in maniera violenta, ma senza che nessuno del popolo che acclamava il regime nelle piazze lo potesse sapere. Perfino la Chiesa, nonostante le sue imponenti opere di carità in tutta la penisola, era sventuratamente chiamata a tacere.


Oggi per fortuna le cose cambiano. Non so fino a quando durerà, ma abbiamo ancora vescovi cattolici che protestano pubblicamente contro la guerra ai poveri mascherata da ordine e sicurezza, dalla Sicilia, a Firenze, a Milano, al Veneto. C'è sopra tutti il vescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che da anni segnala, ed anzi accusa, questa guerra ai poveri condotta dalle istituzioni pubbliche ovvero laiche. Denuncia pubblicamente lo sfruttamento dei lavoratori, chiede dignità e comprensione per coloro che sono considerati lavoratori «marginali». Denuncia gli sgomberi forzati di famiglie intere, costrette a scappare e a rifare comunità da un punto all'altro della metropoli: sotto i ponti, lungo le periferie, nei campi inquinati dalla nostra immondizia.


Sempre pronte a protestare contro l'invadenza della Chiesa, ma a servirsene in caso di necessità elettorali o finanziarie, molte pubbliche istituzioni oggi si levano senza pudore in difesa della loro guerra ai poveri. Altro che il mazzolariano «dare la parola ai poveri». Una missione di pace mascherata di perbenismo e di moralità: via gli accattoni, pulizia quasi etnica nei campi dei nomadi, manganelli ai poliziotti locali (ex vigili urbani), cacciata da tutti gli angoli delle strade degli extracomunitari che sopravvivono vendendo cianfrusaglie e dormono all'addiaccio o nei peggiori angoli della città.


Ordine e sicurezza? No, le parole del vescovo Tettamanzi in favore dei poveri e dei lavoratori sfruttati da chi arma i poliziotti locali e allontana la povera gente invece di aiutarla a un vivere civile, rivelano che con questi metodi non c'è né l'uno né l'altra. E come risponde Milano? Il sindaco Letizia Moratti si dice amareggiata: non per lo stato di miseria, ma per le parole del cardinale.

Mario Pancera