Prendendo spunto dalle denunce del consigliere Benedetti del PDL in merito alla situazione dell' “accampamento” di Rom e Sinti in via don Minzoni a Massa, penso che sia necessario riflettere seriamente su un problema, sicuramente complesso e difficile, quale quello della convivenza con il mondo dei nomadi.
Ma è proprio misurandoci su questa criticità, che racchiude in sé paure, diffidenze e disagi, da parte di tutte le comunità coinvolte, è possibile far sì che la Politica esprima segnali “includenti”, a differenza di una cultura dominante che va nella direzione opposta.
Per “governare” problemi complessi è necessario farsi carico di tutti i soggetti coinvolti, capovolgendo quel paradigma, che si è affermato e incancrenito in questi ultimi vent'anni, che ci porta spesso a rapportarci alle criticità di un territorio (sia esse sociali, economiche, occupazionali, culturali) nell'ottica di “escludere”, quasi “cancellando”, i soggetti più deboli e le istanze di cui sono portatori.
Dinanzi al disagio dei cittadini che risiedono accanto ad campo nomade, magari in un contesto di degrado e di abbandono, se si decide semplicemente di “eliminare” la presenza dei nomadi, è ben evidente a tutti che semplicemente spostiamo il problema, nascondendolo al nostro sguardo.
Capovolgere il paradigma, declinando diversamente le azioni da intraprendere, significa, da parte della Politica, e di conseguenza anche dell'Amministrazione, assumere tutte le istanze e i disagi in campo, quelli dei cittadini e quelli dei nomadi, perché solo tenendoli uniti è possibile iniziare a costruire soluzioni, che vadano nella direzione di ridurre quel fossato di separatezza e di esclusione, operando nell'ottica di rafforzare una coesione sociale positiva.
Quel disagio lo si affronta mettendo in campo azioni e politiche che aiutino le persone che vivono ai margini, a sentire il territorio meno ostile, iniziando a viversi come parte attiva di esso.
Un'operazione del genere, che è ancor prima che amministrativa è culturale, necessita una scelta politica che vada in questa direzione, che non cerchi il “nemico” di turno da emarginare, ma che sia in grado di ascoltare anche le istanze di chi vive ai margini, nella consapevolezza che ogni lacerazione messa in atto allarga in maniera esponenziale il fossato che separa un territorio da chi ne è marginalizzato.
Per questo non è concepibile una politica schizofrenica che un istante denuncia lo stato di degrado dei campi, nell'altro mette in atto politiche di distruzione dei campi e criminalizzazione generalizzata.
In tale ottica affrontare il problema di quell'accampamento in via Don Minzoni significa assumere come necessario e improcrastinabile il fatto che un'amministrazione debba individuare aree per accogliere le comunità rom, facendo si che queste non diventino dei ghetti, non sia ulteriormente motivo di esclusione, ma sia semplicemente il primo passo di un processo inclusivo, che si articola e si declina con politiche sociali, culturali, formative che facciano si che una comunità finora marginalizzata inizi progressivamente a sperimentare di non sentirsi estranea ad un territorio e a quel luogo, avviando, in una rete tra Amministrazioni interessate e associazionismo, processi includenti, che coinvolgano la comunità nomade e quella autoctona.
La politica deve sostenere queste azioni, facendo una scelta precisa: non può continuare a costruire modelli in cui ci siamo noi e gli altri, separati. Si rendono necessari modelli nei quali tutti siamo “noi”, solo in quest'ottica il problema di risolvere una situazione di degrado e marginalità è una crescita collettiva.
(Pubblicato su "La Nazione" del 02/02/2011)