Ho avuto la fortuna di ascoltare don Luigi Ciotti al seminario, organizzato dalla Fondazione Devoto a Firenze il 24 marzo u.s., "Emergenza Civiltà: percorsi di inclusione sociale in Toscana e sul territorio nazionale".
Confesso che è stata una relazione rigenerante, di cui sicuramente ne percepivo il bisogno, e voglio condividere con voi alcune suggestioni che mi hanno particolarmente coinvolto e che credo possano essere utile nel ripensare un agire politico diverso.
Come soggetti sociali (penso alla mia esperienza nel mondo dell'associazionismo e del volontariato) e politici (penso alla mia militanza in un preciso partito politico) abbia il dovere di alimentare la speranza di un cambiamento, delineandone non solo lo scenario, ma anche il sentiero che riteniamo utile percorrere insieme ad altri.
Ma alimentare la speranza, significa rieducarci a vivere la sana rabbia e il sano coraggio. Una sana rabbia che susciti indignazione e voglia di ribellarsi, facendo emergere il coraggio di essere un elemento di discontinuità rispetto all'agire politico quotidiano, la “pietra di scandalo”.
Tenere insieme speranza, rabbia, coraggio e... "sana follia", senza averne paura, ma percependo la responsabilità che abbiamo nell'essere soggetti di trasformazione.
Ritengo che sia indispensabile sviluppare questo ragionamento partendo dalle politiche sociale, perché delinea il sociale come qualcosa di profondamente diverso dalla semplice "emergenza" cui spesso lo collochiamo, aprendolo ad un orizzonte diverso, che sono sia semplicemente il luogo dove esistono solo “problemi” o “casi”, ma che diventa il laboratorio dove davvero si inizia a disegnare e colorare una città altra e diversa.
In tale ottica ad esempio l'assumere che le pratiche inclusive non rispondono solo ai bisogni di chi viene escluso e messo ai margini del nostro sistema, ma risponde, direi quasi principalmente, a quel bisogno di sicurezza e di città a misura d'uomo che ciascuno di noi desidera: perché non è la fortificazione che genera sicurezza, ma le relazioni che riusciamo a sviluppare, che la politica può facilitare o annientare.
Mettere in campo politiche inclusive, significa davvero pensare ad una città altra, a processi culturali profondamente diversi rispetto a quelli che ci hanno attraversato in questi ultimi decenni, capaci di suscitare "relazioni", rispetto invece alla chiusura delle politiche che vogliono trasformare le nostre vite e le nostre città in fortini assediati.
Ma per fare questo è necessario che la Politica sia capace, non di alimentare le paure, ma di trasformale in speranza.
E' necessario sconfiggere la Politica delle paure, immettendo aria nuova, boccate di ossigeno all'agire quotidiano.
E' necessario che la politica sappia alimentarsi dal sogno e dall'utopia, declinandole in percorsi che progressivamente vanno dipanando pezzi di quel sogno e di quell'utopia.
E' necessario passare da una gestione del sociale puramente limitata all'emergenza, ad una idea del sociale che sia permeata di continuità... che contagi tutto l'agire politico e amministrativo.
Mettere in atto politiche inclusive, significa in qualche modo trasformare la città, le relazioni, i lavori, l'ambiente in un'ottica inclusiva... in un percorso partecipativo, che coinvolga, che renda protagonisti tutti i soggetti, dagli operatori alle persone che gridano il bisogno di aiuto.
Pensare che tutto ciò sia solo relegabile all'ambito di un assessorato al sociale è semplice miopia politica, incapacità a pensare ad un sistema di relazioni diverse.
Certo che investe anche l'assessore alle politiche sociali, ma non può limitarsi ad esso se non è coerente a questo progetto l'impalcatura con la quale voglia costruire la città. Un'impalcatura fatta di urbanistica, di cultura, di percorsi partecipativi, di ambiente, di trasporti... di far si che ciascuno possa sentirsi "cittadino attivo e consapevole" di una città, a prescindere dalla propria residenza, dalla propria nazionalità, dalla propria fede, dalla propria sessualità, dal bisogno che esprime... cittadino, appunto, “incluso”.
Ecco perché non possono esistere semplici politiche sociali inclusive, ma è necessario che la politica costruisca un progetto di città inclusiva, nel quale al primo posto sta la dignità della persona, chiunque essa sia, e la necessità di sviluppare un sistema di relazioni che progressivamente dipani quel ginepraio del pregiudizio nel quale costruiamo le nostre città fortificate.
Sicuramente le politiche inclusive sono politiche di lungo respiro... non sono le scorciatoie per le quali il problema della sicurezza lo releghiamo a due volanti in più, a qualche telecamera o a mandare i vigili urbani ad inseguire i venditori ambulanti abusivi... sono le politiche che vanno a favorire le relazioni, che vanno scoprire un diverso protagonismo, che facilitano lo sviluppo di un senso diverso e più ampio di cittadinanza sociale.
Un semplice esempio... Spesso le nostre amministrazioni affrontano il problema della prostituzione semplicemente con ordinanze di divieto di sosta, andando a colpire la ragazza e il cliente. In tale ottica non abbiamo arginato il disagio, lo sfruttamento, abbiamo solo indicato loro strada diversa dell'appartamento, sottraendo semplicemente al nostro sguardo qualcosa che ci dava fastidio, ma al tempo stesso abbiamo allontanato la possibilità di intercettare quella ragazza con operatori di strada.
Stesso ragionamento per i commercianti abusivi: non è possibile studiare, insieme alle associazioni di categoria, di percorsi inclusivi, che tengano conto tuttavia, della condizione di marginalità da cui queste persone partono, senza invece limitarsi semplicemente alla pura azione repressiva, che significa poi solo spostare altrove il problema?
Siamo chiamati a dare una speranza di un sistema di relazioni diverso... ma per fare questo dobbiamo essere capaci di avere un'idea di città, un'idea di politica... facendo scelte precise e non neutrali, costruendo un modello sociale a partire dagli esclusi.
Nello scrivere queste riflessioni, non posso non pensare a quale incapacità spesso la politica a mostrato nei confronti delle nostre periferie.
Gli immigrati che si trovano in piazza della Stazione a Massa, riconoscono quel luogo come un loro spazio di socializzazione e di incontro.
Una politica che pensi di estrometterli da quello spazio riconquistandolo è una politica miope. Una politica inclusiva è quella che inizia a mettere in relazione i cittadini autoctoni con quegli immigrati, una politica capaci si sgretolare il pregiudizio.
Perché ad esempio non iniziare a mettere in quella piazza, così come in ogni periferia a rischio, un Centro di Ascolto, che sia anche luogo per fornire informazioni, spazio che assuma una diversa gestione dei conflitti sociali, motore di una facilitazione di pratiche partecipative... ?
Perché non pensare ai Centri di Aggregazione esistenti come a qualcosa di più grande, sui quali investire risorse e formazione?
Perché non far si che in quella piazza, in quelle periferie, un diverso senso di appartenenza permetta una cura del decoro urbano, un viverla diversamente, favorendo lo sviluppo di attività commerciali, anche di immigrati, e al tempo stesso lo si faccia diventare uno degli spazi di autoproduzione culturale?
Certo sono tempi lunghi... è più facile chiedere che passi una volante più spesso, mettere le telecamere... espellere gli immigrati ogni tanto... e non fare altro.
Ma ancora una volta abbiamo perso l'occasione per partire da un disagio (il nostro e quello degli immigrati) e pensare che quello possa essere l'elemento generante di una nuova energia, capace di ridisegnare diversamente la città, in una prospettiva urbanistica, di servizi, di commercio, di cultura di sociale... e di partecipazione e protagonismo.
Io credo che un investimento in tale senso sia un grande servizio alla città, che aiuti riscoprire gli elementi di solidarietà e di vicinanza, che sicuramente possono essere un ulteriore aiuto al disagio della solitudine nella quale siamo precipitati... una città solidale, condomini solidali, pazze solidali... possono essere un aiuto non indifferente agli interventi dei servizi sociali, anche dinanzi ai tagli che il governo centrale impone progressivamente agli Enti Locali.
Perché dinanzi a questa atomizzazione della società e a questa fortificazione delle città è necessario contrapporre una politica alta, in grado di disegnare una “città in relazione” e non una “città fortino”.
Ed è necessario allora avere un orizzonte nel quale muoversi, che non si esaurisca in un quinquennio amministrativo, ed investire risorse umane, di mezzi... avviare riflessioni e studi...
Dinanzi ai conflitti esistenti nel territorio e al disagio, anziché proporre le solite soluzioni di ordine pubblico, è necessario pensare a centri di gestione dei conflitti nelle periferie, che diventino essi stessi laboratori di pratiche partecipative, di attivazione delle risorse, di facilitazione alla riscoperta di un nuovo protagonismo, declinando lo slogan della partecipazione secondo altre e diverse modalità.
Buratti Gino
Massa, 5 aprile 2011