Donne in Afghanistan (Strada Cecilia)
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(Cecilia Strada, dal sito Peacereporter articolo del 8 marzo 2007)
(tratto da Notizie minime n. 24, del 10 marzo 2007 Centro Ricerca per la Pace)
Dal 2001 a oggi, qualcosa è cambiato per la popolazione femminile in Afghanistan. Diverse donne sono state elette all'Assemblea nazionale (tutte però, è bene ricordarlo, grazie alle "quote rosa" e non perché siano state realmente premiate dal voto degli elettori), nelle città in molte hanno potuto ricominciare a lavorare fuori casa, a studiare, a frequentare gli spazi pubblici. Per la stragrande maggioranza di chi abita al di fuori dei grossi centri urbani, tuttavia, sembra che il tempo non sia passato.
Ancora oggi, una donna che nasce in Afghanistan - chiamiamola Gulchì, con nome di fiore - ancora prima di venire al mondo appartiene al padre. Nella vita di tutti i giorni, è il fratello a controllarla, accompagnandola e sorvegliandola quando è costretta a uscire di casa. Se il padre deve assentarsi per lavoro, o se il padre muore, è il fratello a diventare il capo della famiglia e a disporre di lei. "Il fratello è peggio del padre" è la frase di circostanza che le donne usano ogni volta che vengono a conoscenza di qualche abuso perpetrato su una donna da parte del fratello.
(tratto da Notizie minime n. 24, del 10 marzo 2007 Centro Ricerca per la Pace)
Dal 2001 a oggi, qualcosa è cambiato per la popolazione femminile in Afghanistan. Diverse donne sono state elette all'Assemblea nazionale (tutte però, è bene ricordarlo, grazie alle "quote rosa" e non perché siano state realmente premiate dal voto degli elettori), nelle città in molte hanno potuto ricominciare a lavorare fuori casa, a studiare, a frequentare gli spazi pubblici. Per la stragrande maggioranza di chi abita al di fuori dei grossi centri urbani, tuttavia, sembra che il tempo non sia passato.
Ancora oggi, una donna che nasce in Afghanistan - chiamiamola Gulchì, con nome di fiore - ancora prima di venire al mondo appartiene al padre. Nella vita di tutti i giorni, è il fratello a controllarla, accompagnandola e sorvegliandola quando è costretta a uscire di casa. Se il padre deve assentarsi per lavoro, o se il padre muore, è il fratello a diventare il capo della famiglia e a disporre di lei. "Il fratello è peggio del padre" è la frase di circostanza che le donne usano ogni volta che vengono a conoscenza di qualche abuso perpetrato su una donna da parte del fratello.
Donne in marocco (Leela Jacinto)
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[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo dal titolo originale "I diritti delle donne marocchine indossano vesti regali".
Leela Jacinto, giornalista indipendente esperta di affari mediorientali, è stata reporter internazionale per "Abc News" ed ha insegnato giornalismo per l'agenzia "Pajhwok Afghan News Service" a Kabul in Afghanistan]
Casablanca, Marocco.
La frase che gira sulle strade di Casablanca, l'affaccendata capitale commerciale del Marocco è: l'imperatore ha dei nuovi vestiti. Ha anche una nuova bimba, e la stampa marocchina si è gettata a capofitto sull'evento. Dopo la nascita della sesta figlia di re Mohammed VI, la principessa Khadija, il 28 febbraio scorso, due importanti riviste femminili hanno offerto servizi fotografici in omaggio alla piccola altezza reale. Raffigurando l'intera famiglia abbigliata negli squisiti indumenti tradizionali, i servizi hanno dato un raro sguardo al mondo privato di Mohammed VI, il diciottesimo re della dinastia Alauita, una delle più antiche del pianeta.
"Sì, ho comprato copia di entrambe le riviste", dice Botoul Sahli, insegnante quarantaduenne, "Sono immagini bellissime. Adoro le vesti tradizionali, così preziose. Sua maestà non dà importanza al velo. Sua moglie e le sue sorelle non lo indossano. Queste donne sono esempi importanti per noi, donne musulmane marocchine".
Salutato come una luminosa speranza per la modernizzazione araba quando è salito al trono sette anni fa, Mohammed VI ha da allora percorso una strada che potremmo definire mista, ma persino i suoi critici più accaniti riconoscono che le sue iniziative a sostegno dei diritti delle donne hanno avuto un clamoroso successo.
Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra è un crimine. Lo stupro è il peggior crimine dei crimini", pubblicato su Voci e Volti della nonviolenza, n. 70 del 27 giugno 2007.
"Lo stupro è il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller).
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. È un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra è anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunità, di un gruppo o di un popolo. Lo stupro è infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non è il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giù a calci alle due del mattino, o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in città. È il primo terrore di una donna.
Leela Jacinto, giornalista indipendente esperta di affari mediorientali, è stata reporter internazionale per "Abc News" ed ha insegnato giornalismo per l'agenzia "Pajhwok Afghan News Service" a Kabul in Afghanistan]
Casablanca, Marocco.
La frase che gira sulle strade di Casablanca, l'affaccendata capitale commerciale del Marocco è: l'imperatore ha dei nuovi vestiti. Ha anche una nuova bimba, e la stampa marocchina si è gettata a capofitto sull'evento. Dopo la nascita della sesta figlia di re Mohammed VI, la principessa Khadija, il 28 febbraio scorso, due importanti riviste femminili hanno offerto servizi fotografici in omaggio alla piccola altezza reale. Raffigurando l'intera famiglia abbigliata negli squisiti indumenti tradizionali, i servizi hanno dato un raro sguardo al mondo privato di Mohammed VI, il diciottesimo re della dinastia Alauita, una delle più antiche del pianeta.
"Sì, ho comprato copia di entrambe le riviste", dice Botoul Sahli, insegnante quarantaduenne, "Sono immagini bellissime. Adoro le vesti tradizionali, così preziose. Sua maestà non dà importanza al velo. Sua moglie e le sue sorelle non lo indossano. Queste donne sono esempi importanti per noi, donne musulmane marocchine".
Salutato come una luminosa speranza per la modernizzazione araba quando è salito al trono sette anni fa, Mohammed VI ha da allora percorso una strada che potremmo definire mista, ma persino i suoi critici più accaniti riconoscono che le sue iniziative a sostegno dei diritti delle donne hanno avuto un clamoroso successo.
Lo stupro come arma di guerra (Di Rienzo Maria)
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Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra è un crimine. Lo stupro è il peggior crimine dei crimini", pubblicato su Voci e Volti della nonviolenza, n. 70 del 27 giugno 2007.
"Lo stupro è il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller).
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. È un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra è anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunità, di un gruppo o di un popolo. Lo stupro è infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non è il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giù a calci alle due del mattino, o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in città. È il primo terrore di una donna.
Il femminismo, la non violenza (Angela Dogliotti Marasso)
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(Intervento alla tavola rotonda la nonviolenza delle donne, tenutasi a Pisa in occasione del convegno 100 anni di Satyagraha, pubblicato su La nonviolenza è in cammino, n. 1438 del 3 ottobre 2006)
In un convegno come questo, che vuole fare memoria di un altro 11 settembre, per rendere visibile il ricco patrimonio di nonviolenza presente nella storia e aprire così una diversa prospettiva per il presente e per il futuro, mi sembra importante fare memoria anche delle riflessioni e delle pratiche in cui il rapporto tra donne e nonviolenza è venuto alla luce nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla mia personale ricerca di nonviolenza e presenza all'interno dei movimenti. Un punto di vista parzialissimo, dunque, e per nulla esaustivo, una testimonianza esemplificativa, più che una ricostruzione storica di ciò che è stata la nonviolenza delle donne dagli anni Settanta ad oggi.
Una prima sistematica raccolta di testi su questo tema si trova sul numero di "Azione nonviolenta" del luglio-agosto 1979, sotto forma di dossier dal titolo "Femminismo. La nonviolenza: una via?", con contributi prevalentemente stranieri comparsi nel corso degli anni Settanta.
Questo materiale costituisce il nucleo di partenza di un testo, Per un futuro nonviolento, curato da Adriana Chemello e pubblicato dalla casa editrice Satyagraha nel 1984 (1). L'approccio che l'autrice propone per indagare il rapporto tra donne e nonviolenza è evidenziato già dal titolo del primo paragrafo dell'introduzione: "Mai più vittime e complici". Una presa di distanza dal vittimismo e un mettere in primo piano la responsabilità, la scelta, sia nelle relazioni di genere, sia in quelle politico-sociali, per rifiutare ogni complicità e attivare la forza e il potere che è nelle mani di ciascuna/o, in perfetta continuità con la concezione nonviolenta del potere.: "La forza di chi opprime sta tutta nella paura e nella debolezza della vittima. Il potere sull'altro si avvale del consenso o della delega" ( p. 12).
Più avanti nell'introduzione si parla della necessità di recuperare per tutti i "cosiddetti" (virgolettato nel testo) valori femminili: "l'empatia, l'attenzione ai cicli biologici, il rispetto dei ritmi naturali... l'armonia col cosmo, l'apertura e la disponibilità verso gli altri" (p. 13) e di ripensare la nonviolenza a partire da sè, di "leggerla dal nostro punto di vista per interpretarla e se possibile praticarla in sintonia con la nostra femminilità" (p. 17).
Ma anche il rapporto tra donne e violenza è indagato a fondo in uno dei saggi proposti ("Tra cane e lupo", di Francoise Collin), mettendo in discussione lo stereotipo della donna "naturalmente" nonviolenta ed evidenziando le varie forme di violenza subita o agita, contro gli altri e contro di sè.
In un convegno come questo, che vuole fare memoria di un altro 11 settembre, per rendere visibile il ricco patrimonio di nonviolenza presente nella storia e aprire così una diversa prospettiva per il presente e per il futuro, mi sembra importante fare memoria anche delle riflessioni e delle pratiche in cui il rapporto tra donne e nonviolenza è venuto alla luce nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla mia personale ricerca di nonviolenza e presenza all'interno dei movimenti. Un punto di vista parzialissimo, dunque, e per nulla esaustivo, una testimonianza esemplificativa, più che una ricostruzione storica di ciò che è stata la nonviolenza delle donne dagli anni Settanta ad oggi.
Una prima sistematica raccolta di testi su questo tema si trova sul numero di "Azione nonviolenta" del luglio-agosto 1979, sotto forma di dossier dal titolo "Femminismo. La nonviolenza: una via?", con contributi prevalentemente stranieri comparsi nel corso degli anni Settanta.
Questo materiale costituisce il nucleo di partenza di un testo, Per un futuro nonviolento, curato da Adriana Chemello e pubblicato dalla casa editrice Satyagraha nel 1984 (1). L'approccio che l'autrice propone per indagare il rapporto tra donne e nonviolenza è evidenziato già dal titolo del primo paragrafo dell'introduzione: "Mai più vittime e complici". Una presa di distanza dal vittimismo e un mettere in primo piano la responsabilità, la scelta, sia nelle relazioni di genere, sia in quelle politico-sociali, per rifiutare ogni complicità e attivare la forza e il potere che è nelle mani di ciascuna/o, in perfetta continuità con la concezione nonviolenta del potere.: "La forza di chi opprime sta tutta nella paura e nella debolezza della vittima. Il potere sull'altro si avvale del consenso o della delega" ( p. 12).
Più avanti nell'introduzione si parla della necessità di recuperare per tutti i "cosiddetti" (virgolettato nel testo) valori femminili: "l'empatia, l'attenzione ai cicli biologici, il rispetto dei ritmi naturali... l'armonia col cosmo, l'apertura e la disponibilità verso gli altri" (p. 13) e di ripensare la nonviolenza a partire da sè, di "leggerla dal nostro punto di vista per interpretarla e se possibile praticarla in sintonia con la nostra femminilità" (p. 17).
Ma anche il rapporto tra donne e violenza è indagato a fondo in uno dei saggi proposti ("Tra cane e lupo", di Francoise Collin), mettendo in discussione lo stereotipo della donna "naturalmente" nonviolenta ed evidenziando le varie forme di violenza subita o agita, contro gli altri e contro di sè.
Il potere tra i sessi, una conversazione con Adriana Cavarero
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Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo il testo della seguente conversazione tenuta al liceo scientifico "Isaac Newton" di Roma e trasmessa nel programma televisivo della Rai "Il grillo" del 10 novembre 1998, pubblicato sul notiziario "La nonviolenza è in cammino".
Dietro il velo (Lea Meandri)
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[Dal quotidiano "Liberazione" del 18 ottobre 2006]
Il dibattito che ha fatto seguito al caso Hina, agli stupri avvenuti in agosto a Milano, alla ripresa di omicidi di donne in ambito familiare, e infine ai casi di violenza sessuale denunciati pochi giorni fa a Roma, non poteva che percorrere la strada tortuosa dell'annodamento tra quello che oggi viene visto come "scontro di civiltà", in particolare tra Islam e Occidente, e la guerra più antica, universalmente estesa, per quanto mai dichiarata, tra uomo e donna.
Era altrettanto inevitabile che avrebbe finito per oscillare tra spiegazioni opposte: per alcuni, l'evidenza rimasta così a lungo invisibile di un dominio, come quello maschile, che attraversa la storia quasi senza variazioni significative di tempi e luoghi; per altri, il legame manifesto tra la violenza contro le donne e la rinascita di fondamentalismi religiosi, difese identitarie, bisogni di appartenenza.
Tratto dalla "Nonviolenza è in cammino"
Il dibattito che ha fatto seguito al caso Hina, agli stupri avvenuti in agosto a Milano, alla ripresa di omicidi di donne in ambito familiare, e infine ai casi di violenza sessuale denunciati pochi giorni fa a Roma, non poteva che percorrere la strada tortuosa dell'annodamento tra quello che oggi viene visto come "scontro di civiltà", in particolare tra Islam e Occidente, e la guerra più antica, universalmente estesa, per quanto mai dichiarata, tra uomo e donna.
Era altrettanto inevitabile che avrebbe finito per oscillare tra spiegazioni opposte: per alcuni, l'evidenza rimasta così a lungo invisibile di un dominio, come quello maschile, che attraversa la storia quasi senza variazioni significative di tempi e luoghi; per altri, il legame manifesto tra la violenza contro le donne e la rinascita di fondamentalismi religiosi, difese identitarie, bisogni di appartenenza.
Una femminista in Iran (Maria G. Di Rienzo)
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Shahla Sherkat, giornalista da 26 anni, laureata anche in psicologia, edita e dirige il mensile "Zanan" (Donne) a Teheran. Lo ha fondato nel 1991, dopo essere stata licenziata dal posto di direttrice del settimanale filogovernativo "Zan-e Rouz" (Donna oggi). Shahla Sherkat fu cacciata a cause delle sue proteste sul tipo di servizi che la pubblicazione prediligeva: l'immagine delle donna che ne emergeva era esclusivamente quella di una conservatrice religiosa, un'immagine assai propagandata dal governo iraniano.
Sherkat fondò "Zanan" perché vedeva che i media "ufficiali" ignoravano sistematicamente le istanze ed i diritti delle donne. Si tratta del primo giornale indipendente a concentrarsi sulle donne dopo la rivoluzione del 1979, e lei ne parla come di un figlio: "una creatura di quasi quindici anni che ho allevato attraversando molte difficoltà".
Sherkat fondò "Zanan" perché vedeva che i media "ufficiali" ignoravano sistematicamente le istanze ed i diritti delle donne. Si tratta del primo giornale indipendente a concentrarsi sulle donne dopo la rivoluzione del 1979, e lei ne parla come di un figlio: "una creatura di quasi quindici anni che ho allevato attraversando molte difficoltà".
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