Uno dei problemi, forse il principale, nell'affrontare la violenza maschile sulle donne è legato al fatto che i termini - gli schemi di lettura, le categorie, le parole stesse - che usiamo sono già espressione della cultura e delle visioni che supportano quella stessa violenza.
Il primo esempio, macroscopico, è che nella comunicazione "standard" si continua a parlare di "violenza sulle donne", mettendo l'accento sulla vittima, e non di "violenza maschile" o di "violenza maschile sulle donne", che sottolineerebbe invece l'autore e la responsabilità maschile. Tale rimozione nel linguaggio permette o supporta altre rimozioni. Per esempio siamo abituati a leggere sui giornali o a sentire in televisione espressioni quali "un siciliano" oppure "un maghrebino" o "un rumeno" ha commesso una certa violenza su una donna. Così si mette l'accento su un fatto secondario e si sottrae all'attenzione il dato più comune ma anche più rilevante, ovvero che si tratta di maschi.
L'insistenza sulla vittima che lascia sullo sfondo l'autore, permette inconsapevolmente di "demonizzare" o "disumanizzare" il carnefice anziché farci realmente i conti. Permette inoltre di non interrogarsi sulle dinamiche sociali e relazionali che invischiano insieme carnefice e vittima, rendendo difficile sottrarsi a una relazione patologica tanto a chi la subisce, tanto a chi tale violenza l'agisce magari proprio con l'idea di mantenerla in quel modo legata a sè. In altre parole il linguaggio che usiamo attualmente per parlare della violenza ci preclude la possibilità di porre l'attenzione e di mettere a fuoco il tema delle relazioni. Delle forme della relazione affettiva, di coppia, famigliare, ma anche delle relazioni di lavoro, delle relazioni politiche.
Nei pochi casi in cui nella comunicazione sociale ci si rivolge agli uomini, si finisce per confermare degli stereotipi. "Gli uomini picchiano le donne" sentenziava il manifesto di un partito di sinistra, con una generalizzazione che rischia paradossalmente di "naturalizzare" la violenza maschile e di impedire invece di domandarsi criticamente perché alcuni (molti) uomini sono violenti e (molti) altri no. O per fare un esempio diverso, dire "I veri uomini non picchiano" non significa inconsapevolmente confermare l'esistenza di una categoria di "veri uomini" anziché aiutare gli uomini a rivendicare la loro soggettività e la loro responsabilità?Dichiararsi contro la violenza sulle donne non significa essere a favore della libertà o dell'autonomia delle donne. Ci sono commentatori e forze politiche che si scagliano contro la violenza sulle donne proponendo "punizioni esemplari" o ronde per "proteggere le donne". In questo modo sdoganano una "violenza buona" in opposizione a quella "cattiva" e impediscono di comprendere la connessione simbolica tra l'affermazione virile sulle donne e quella della loro "protezione", poiché entrambe le posture risparmiano agli uomini di mettersi di fronte a una donna disarmati e sullo stesso piano.
Noi non parliamo semplicemente della violenza. Piuttosto siamo parlati dal linguaggio della violenza. E mentre maturiamo come uomini e nelle nostre relazioni dobbiamo maturare nel nostro linguaggio, nel nostro modo di pronunciare il mondo e le relazioni. Un linguaggio magari che ci aiuti a nominare e a dialogare con le nostre emozioni, i nostri desideri, i nostri bisogni. Con le nostre paure e fragilità di fronte alle esperienze di unione e di abbandono, di fiducia o di tradimento nella loro intrinseca apertura e ambivalenza.
Dal sito di "Noi donne" http://www.noidonne.org
Fonte; Centro di Ricerca per la Pace