Moriamo in quanto donne. Senza altra colpa né ragione. È il genere la nostra condanna. Per noi, per raccontare quella violenza, vicina e “amata”, diventata la prima causa delle nostre morti, hanno coniato perfino un termine: “femminicidio”. Un neologismo recente che dovrebbe descrivere questo nostro morire proprio “in quanto donne”…
Senza altra colpa né ragione, che non sia la mancanza di rispetto verso quel ruolo sociale che per secoli il patriarcato ci ha cucito addosso, che ci ha fatte diventare “proprietà” degli uomini, di quegli uomini incapaci di tollerare un no, una scelta, una libertà di agire e di pensare.
La semplice autodeterminazione che si riconosce ai soggetti liberi, non alle vittime oggetto di “violenze invisibili” solo perché malcelate da mura domestiche, non alle fidanzate “troppo amate” protagoniste di “omicidi passionali”, come se la violenza possa essere un’espressione della passione e non la sua negazione.
I giornali oggi ci scrivono che, in questi primi quattro mesi del 2012, siamo morte in 55. I telegiornali ci ricordano che lo scorso anno eravamo 137, l’anno prima ancora, 127… Siamo numeri in crescita… E continuiamo da sempre ad essere anche numeri monchi. Perché in questi primi quattro mesi del 2012, in realtà siamo morte in 65… la lista di nomi di questa mattanza inarrestabile non tiene conto di altre dieci donne, donne non italiane, senza permesso di soggiorno, vittime mute della Tratta, di un femminicidio che non fa notizia, se non raramente.
Audace impresa vivere da donne in un mondo globalmente violento verso il nostro genere. Audace impresa, come ricorda il video di Lella Costa che vi proponiamo sul sito. Impresa culturale, che necessita una denuncia ininterrotta di questa realtà infame, campagne di educazione pubblica, già a partire dalle scuole, e un’azione politica forte e incisiva, capace di riconoscere identità giuridica al femminicidio, come è già avvenuto altrove. Perché serve una tutela per quell’oltre 70% di vittime di femminicidio che aveva già denunciato il proprio aguzzino. Perché l’audacia delle donne spesso ha un prezzo troppo alto, soprattutto quando è ovattata e resa vana dal silenzio istituzionale.