Medio Oriente: riflessioni sul conflitto israeliano - paletsinese
Tratto da La nonviolenza è in cammino, n. 1035 di sabato 27 agosto 2005
Esiste, per ognuno di noi, una zona fra il passato privato come sfondo dei propri ricordi (memoria individuale), e il passato come archivio aperto ad un'indagine storica (memoria sociale).
Questa zona si estende dal punto di inizio delle memorie familiari ancora vive (ad esempio dalla più antica fotografia di famiglia che siamo ancora in grado di spiegare), fino al termine dell'infanzia quando vicende pubbliche e private sono avvertite come inseparabili. Quindi la costituzione più profonda delle categorie etiche e politiche e del loro stesso senso comune e pubblico, resta un'avventura individuale, ma la loro formazione sarà proprio nella memoria sociale, ovvero quella che riuscirà a essere collettivamente più condivisa.
Una memoria sociale è di per se stessa anche memoria storica; la storia è nata proprio contro le deformazioni della memoria, perché quest'ultima è intrinsecamente fragile e i ricordi sono esposti alla mutilazione e alla cancellazione.
Sappiamo che ogni popolo e nazione ha una propria memoria pubblica che è incessantemente promossa da forme del ricordare in comune, da commemorazioni, festività civili e religiose, fino alla stesura di libri di testo di storia e diffusione della lingua.
Credo che in nessun'altra realtà come quello israelo-palestinese ci troviamo drammaticamente davanti ad una memoria contesa e divisa. Torti e ragioni aggrovigliate in un nodo sanguinoso, apparentemente sempre più inestricabile.
È con la genesi e la storia dello stato di Israele in Palestina che, in quella regione storica del Medio Oriente culla di varie civiltà e religioni il nodo inizia ad aggrovigliarsi. Naturalmente non è possibile riassumere in poche righe decenni di drammatiche e complesse vicende che hanno dato luogo a percezioni fortemente divergenti e interpretazioni controverse e polarizzate: nel 1947 le Nazioni Unite approvano un piano che prevede la nascita di due stati, uno ebraico e uno arabo, e l'internazionalizzazione di Gerusalemme. Nel 1948 Israele proclama la propria indipendenza - alle spalle c'è drammaticamente vivo l'orrore della Shoah - scatenando un vero e proprio conflitto: oltre 800.000 palestinesi sono costretti ad abbandonare la propria terra e a rifugiarsi nei paesi arabi limitrofi. Per loro è la catastrofe: la Nakbah. Nasce così la "questione nazionale palestinese", che vede negli anni '60 la costituzione dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) con alla guida Yasser Arafat. Durante la guerra dei sei giorni nel 1967 Israele, divenuta la potenza che domina la regione, occupa i territori residui che l'Onu aveva destinato ai palestinesi. Lo scontro si inasprisce ulteriormente sul piano militare negli anni settanta; sarà solo dopo la prolungata lotta della prima Intifada (1987) che si apre, momentaneamente, la via della negoziazione e della pace. È storia abbastanza recente: gli accordi di Oslo del 1993 e il successivo fallimento, l'assassinio di Rabin, lo scoppio della seconda Intifada, gli attacchi suicidi palestinesi, la costruzione del muro di separazione, la morte di Arafat, fino all'odierno ritiro dei coloni israeliani dalla striscia di Gaza.
Su quest'ultima vicenda c'è stata una grande attenzione mediatica (radio, reti televisive, quotidiani, numerosi giornalisti stranieri) che hanno mostrato le lacrime versate per questo abbandono. Già, ma perché non sono mai state do*****entate quelle versate dai rifugiati palestinesi, espulsi dalle loro case? Ha scritto Zvi Schuldiner ("Il manifesto", 17 agosto 2005): "È terribile, famiglie intere che abbandonano le proprie case. Da molte delle finestre dei coloni si possono vedere i resti di alcune delle case di palestinesi che i soldati 'umanitarì hanno distrutto negli ultimi anni. Circa trentamila palestinesi hanno assistito alla distruzione delle proprie case".
Certo, l'evacuazione di Gaza, è una piccola vittoria dei palestinesi, dopo le sofferenza e le angherie che hanno subito negli ultimi 60 anni; ed una piccola vittoria di tutti coloro che hanno denunciato la follia di voler cancellare la questione palestinese con la forza.
Ma se al ritiro di Gaza non seguono gli altri indispensabili ritiri, il rischio è che non si crei un vero stato di Palestina, ma una sorta di singoli insediamenti palestinesi a pelle di leopardo.
Dovrebbe essere chiaro che la causa palestinese pesa storicamente sulla coscienza di tutto il mondo, perché poco è stato fatto per sorreggerla.
Pesa anche sulle nostre spalle, non solo su quelle dei governi dell'Occidente che hanno abbondato in promesse poi non mantenute, di chi come noi crede nel dialogo nonviolento tra questi due popoli.
Perché la situazione è e resta drammatica, come testimonia Ali Rashid (primo segretario della Delegazione palestinese in Italia): "Quanto tempo, vite umane, innocenze e coscienze dobbiamo ancora perdere per capire che siamo giunti a dimensioni che non permettono scorciatoie, che il senso di responsabilità non è semplicemente l'astuzia di un capo senza scrupoli, che la vita precede lo stato e che la barbarie chiama altra barbarie?... La nostra è una realtà di morte, perché promette solo guerra e morte e mette una speranza contro un'altra speranza. È ora di leggere l'unità del nostro destino tenendo in vista l'uomo vivo e non la realtà morta".
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Giulio Vittorangeli: rompere la realtà di morte
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