Ho avuto una discussione con mia figlia il giorno che è stata colpita da uno sparo.
Uscendo dalla porta di casa per andare a scuola aveva annunciato, nel modo in cui fanno i bambini che nel pomeriggio, invece di tornare a casa per preparare l’esame fissato per il giorno dopo, prima sarebbe andata a giocare da un’amica. Voleva giocare, io le ho risposto che non doveva neanche pensarci. Se potessi dire qualcosa ora, le direi: vai. Fai quello che vuoi. Gioca.
Perché ora lei non potrà mai più. Non riderà mai più, non sentirà più le sue amiche chiamare il suo nome, non sentirà più l’amore della sua famiglia che la avvolge di notte come una coperta calda.
Abir, la terza dei miei figli, è stata ferita in testa da uno sparo mentre usciva da scuola il 16 gennaio, colta nel mezzo fra le truppe israeliane di confine e bambini più grandi che lanciavano, o forse no, dei sassi. E’ morta due giorni dopo.
So cosa l’esercito israeliano ha detto dell’incidente, e so anche quello che la sorella più grande di Abir ha visto con i propri occhi: Abir stava scappando dalle truppe quando all’improvviso si è fermata ed è caduta, ed il sangue ha iniziato a spargersi per terra. Un’autopsia indipendente ha confermato la causa della morte: una pallottola di gomma, nella parte posteriore della testa di Abir. Ho la pallottola in casa, perché la povera Arin, guardando sua sorella che era stata ferita dallo sparo, l’ha raccolta e portata a casa. Non ero sorpreso quando l’esercito israeliano ha cercato di colpevolizzare Abir della sua stessa morte. Prima ci hanno detto che era tra quelli che lanciavano i sassi, dopo ci hanno detto che “qualcosa” era scoppiato tra le sue mani – nonostante le mani siano rimaste miracolosamente intatte – prima che si potesse lanciare contro la jeep della guardia frontiera.
Non ero sorpreso, ma l’angoscia che tali illazioni hanno causato a mia moglie e a me è difficile da esprimere. La nostra bambina è stata uccisa – devono essere dissacrati anche il suo nome e la sua innocenza ?
Sarebbe facile, così facile, odiare. Cercare vendetta, impugnare un fucile, e uccidere tre o quattro soldati, nel nome di mia figlia. Questo è il modo che palestinesi r israeliani hanno vissuto la propria vita per un lungo tempo. Ogni bambino morto – ed ognuno è figlio di qualcuno – è un’altra ragione per continuare ad uccidere.
Lo so. Anch’io ero parte di questa spirale. Ho speso sette anni in una prigione israeliana per aver contribuito a pianificare un attacco contro soldati israeliani. A quel tempo, ero deluso perché nessuno dei soldati era stato ferito.
Ma, mentre scontavo la mia condanna, ho parlato con molte delle mie guardie carcerarie. Ho imparato la storia del popolo ebreo. Ho imparato l’olocausto.
Ed eventualmente sono riuscito anche a capire: da entrambi i lati, siamo stati tramutati in strumenti di guerra. Da entrambi i lati, vi è dolore, lutto e infinite perdite.
E l’unico modo per fermare tutto è fermare noi stessi.
Molte persone ci sono venute in sostegno e ci hanno confortato mentre Abir stava morendo, il suo piccolo viso di gesso bianco, i suoi occhi chiusi per sempre. Tra quelli che non hanno mai smesso di essere al mio fianco, un gruppo di uomini che recentemente ho imparato ad amare come fratelli, uomini che conoscono il mio passato e che lo condividono. Uomini che, come me, sono stati allenati ad odiare, ad uccidere, ma che ora credono fortemente che si debba trovare un modo di vivere con i nostri vecchi nemici.
Uomini israeliani. Ognuno di loro, un ex soldato combattente.
Questi uomini ed io siamo membri dei combattenti per la pace. Ognuno di noi, 300 palestinesi ed israeliani, era nelle linee d’avamposto del conflitto. Abbiamo sparato, bombardato, torturato e ucciso. Credevamo che fosse l’unico modo per servire la nostra gente.
Adesso sappiamo che questo non è vero. Sappiamo che per servire la nostra gente, non dobbiamo combattere l’uno contro l’altro, ma l’odio che c’è tra di noi. Dobbiamo trovare un modo per condividere la terra che ognuno possiede nel profondo della propria anima, costruire due stati fianco a fianco. Solo allora il lutto finirà.
Non riposerò fino a quando il soldato responsabile della morte di mia figlia sarà processato e affronterà le conseguenze di quanto ha fatto. Così potrò vedere che il mondo non scorsa mia figlia, la mia adorata Abir.
Ma io non cercherò vendetta. No, continuerò il lavoro che ho intrapreso con i miei fratelli israeliani. Combatterò con tutto ciò che porto dentro per vedere il nome di Abir, il suo sangue, diventare un ponte che finalmente chiude la spaccatura tra di noi, un ponte che permetta agli israeliani ed ai palestinesi di vivere finalmente, inshallah, in pace.
Se potessi dire a mia figlia qualcosa, le farei questa promessa. E le direi che l’amo molto, moltissimo.
(Bassam Aramin abita ad Anata, nei dintorni di Gerusalemme, ed è membro dei combattenti per la pace. Traduzione dall’inglese di Luisa Morgantini)
Fonte: Comunità di Via Gaggio (Lecco)
Home
In memoria di Abir Aramin morta il 18 gennaio 2007
- Il padre di Abir- palestinese
- Categoria: Palestina
- Visite: 592