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La "crisi finanziaria" fuori dal coro (Francesco Gesualdi)

Si è parlato di questa crisi come di una crisi finanziaria. In realtà si è trattato di una classica crisi da ingiusta distribuzione della ricchezza come tutte le altre vissute dal capitalismo. Anche questa volta la questione finanziaria è stata la complicazione che ha messo la crisi allo scoperto, ma se vogliamo capire cosa è successo dobbiamo ripartire dalla globalizzazione.
Siamo a fine anni ottanta, le multinazionali scalpitano per uscire dai confini nazionali, rivendicano la possibilità di poter collocare i loro prodotti da un capo all'altro del mondo senza vincoli di sorta. Tramano, brigano, sbraitano, e ce la fanno a raggiungere il loro obiettivo, ma poi scoprono che il grande mercato mondiale non esiste: solo il 30-35% della popolazione ha i soldi in tasca per assorbire i loro prodotti, tutti gli altri sono inutile zavorra. Finisce che tante imprese cercano di contendersi pochi clienti, si lanciano in una concorrenza feroce basata anche sulla riduzione dei prezzi. Alle imprese interessa il profitto, se sono costrette a ridurre i prezzi si ingegnano per ridurre anche i costi, così il lavoro finisce sotto attacco. Nei settori ad alta tecnologia la strategia prescelta è l'automazione, negli altri settori si opta per il trasferimento della produzione nei paesi a bassi salari.
Emerge un nuovo mondo contrassegnato da un Sud affollato da lavoratori in semischiavitù e un Nord con un crescendo di disoccupati e lavoratori precari malpagati. Il risultato è una classe lavoratrice mondiale più povera, ma i padroni si fregano le mani: dal 2001 al 2005 la quota di ricchezza mondiale finita ai profitti è cresciuta dell'8%. Il che ha due conseguenze. Prima di tutto l'esplosione della finanza, un effetto dovuto alla sfiducia dei capitalisti nella capacità di vendita del sistema. Il loro ragionamento è semplice: quando la massa salariale scende, le prospettive di vendita si riducono; è inutile investire in nuove attività produttive. Meglio buttarsi nella speculazione, l'arricchimento tramite l'azzardo, la compravendita di immobili e titoli, non importa se veri o fasulli. L'importante è stare al tavolo del gioco, portare a casa soldi ad ogni puntata. Poi si vedrà.
La seconda conseguenza è l'esplosione del debito: quando le buste paga si fanno leggere, il rischio è che non si chiuda più il cerchio fra ciò che si produce e ciò che si vende. Per ritrovare stabilità servirebbe una più equa distribuzione della ricchezza, ma al sistema questa prospettiva non piace, finché può, rinvia la decisione con rimedi tampone, cerca la quadratura del cerchio nell'indebitamento. Ad ogni angolo di strada banche, istituti finanziari, concessionarie, supermercati, pronti a offrire a poveri e meno poveri, mutui, acquisti a rate, prestiti al consumo: il sogno di una vita al di sopra delle proprie possibilità a portata di mano.
Ovunque le famiglie hanno abboccato, in Italia, ad esempio, nel 2008 il debito totale delle famiglie corrispondeva al 70% delle loro entrate annuali, qualcosa come 16.000 euro a nucleo. Tuttavia il paese dove le famiglie si sono inguaiate di più è gli Stati Uniti, l'attrattiva è stata l'acquisto della casa. Nell'euforia degli affari sono stati offerti mutui anche a famiglie economicamente deboli, mutui inaffidabili presi a base di complesse attività speculative che hanno coinvolto banche, assicurazioni, fondi d'investimento, fondi pensione.
Tutto è filato liscio finchè i tassi di interesse sono rimasti bassi, le case hanno continuato a rivalutarsi, ma quando c'è stata l'inversione di tendenza, molte famiglie non ce l'hanno più fatta a restituire le rate e l'intero castello è crollato. Sono cominciati i primi fallimenti bancari, più nessuno si è fidato dell'altro, l'intera attività creditizia si è paralizzata per mancanza di fiducia reciproca, banche ed imprese hanno cominciato ad annaspare per mancanza di fondi. In fondo la finanza è più psicologia che scienza.
Col manifestarsi della crisi finanziaria, anche il marcio di fondo è venuto a galla: intere economie si sono inceppate per l'incapacità dei consumi di assorbire la produzione. A fine 2008 il sistema ha dovuto ammettere lo stato di crisi ed ha chiesto ai governi, gli unici con carroattrezzi adeguati, di intervenire. Con un unico obiettivo: tirare l'auto fuori dalla scarpata e rimetterla in condizione di riprendere la sua corsa. Per risollevare banche ed imprese sono stati stanziati miliardi di euro, a forza di strattoni, probabilmente l'auto verrà tirata su e sarà rimessa in carreggiata. Ma ci sono forti dubbi che possa riprendere a correre perchè anche la strada risulta gravemente danneggiata: a forza di passarci si sono formate buche ovunque, in molti punti il ciglio è franato, se l'auto pretende di correre si fracasserà.
L'unica possibilità è rallentare, dotare l'auto di ammortizzatori più solidi, mettere alla guida un autista più prudente. Fuor di metafora, le risorse si stanno esaurendo, il clima sta impazzendo, le tensioni sociali si stanno aggravando, per evitare il tracollo dovremo passare dall'economia della crescita, all'economia del limite, dall'economia del cowboy all'economia dell'austronauta, ma anche dall'economia della precarietà all'economia della sicurezza, dall'economia dell'avidità all'economia dei diritti. Potremmo chiamarla economia del benvivere o economia del rispetto, un'economia equa, sostenibile e solidale, capace di garantire a tutti un'esistenza dignitosa nel rispetto del pianeta.
Una strada da imboccare al più presto perché la doppia crisi, ambientale e sociale, non ci lascia più tempo. Ma sappiamo che il cambiamento non potrà essere che graduale, avverrà solo attraverso un cambio di mentalità e di comportamenti da parte di cittadini, istituzioni, imprese. Ed oggi che migliaia di persone rischiano il licenziamento, che le entrate di molte famiglie rischiano di non coprire neanche i bisogni fondamentali, bisogna agire contemporaneamente su due piani: quello dell'emergenza e quello del capovolgimento di sistema in una logica di diritti.