Pubblichiamo la relazione che Giuliano Pontara ha tenuto al V corso internazionale dell'Unip-Iupip, Rovereto, 22 settembre 1997, che abbiamo estratto da "Azione nonviolenta" di ottobre 1997 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org)
Il nostro secolo è cominciato con un processo di rapida globalizzazione della violenza che è sfociato in due guerre mondiali e l'invenzione e costruzione in massa di armi termonucleari con le quali è possibile obliterare l'intero genere umano; si sta chiudendo con un processo di rapida globalizzazione violenta.
La globalizzazione comporta l'integrazione in un unico mercato mondiale dei flussi internazionali del commercio, del capitale, della finanza e dell'informazione. Questo processo di globalizzazione avviene in nome del nuovo paradigma neoliberista - l'ideologia che dalla caduta dei sistemi comunisti è uscita enormemente rafforzata. Di ideologia infatti si tratta, perché non è mica da credere che il mercato mondiale sia libero; al contrario, esso e controllato da circa 750 onnicomprensive corporazioni multinazionali e da potentissime forze finanziarie, e risente pesantemente delle politiche interventiste del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Queste due istituzioni sono il braccio lungo dei potenti interessi economici che "regolano il processo di accumulazione del capitale a livello globale". Da esse emanano gli imperativi delle privatizzazioni, della deregolamentazione dei mercati globali, dei movimenti di capitale, e degli aggiustamenti strutturali - imperativi oggi accettati dalla stragrande maggioranza dei governi, quale che sia la loro composizione politica.
In conseguenza di questi imperativi, ed in particolar modo dei processi di deregolamentazione, i flussi finanziari hanno raggiunto proporzioni incredibili: ogni ventiquattro ore, oltre mille miliardi di dollari si spostano in cerca di profitti massimi su un mercato finanziario globale che non conosce frontiere. Le forze che agiscono su questo mercato finanziario globale sono potentissime: esse sono in grado di condizionare pesantemente le politiche finanziarie degli stati, anche dei più forti, limitando il loro potere di determinazione dei tassi di interesse e dei tassi di cambio. Per farsi un'idea del potere di queste forze si pensi che nel 1994 il totale delle vendite di ciascuna delle tre maggiori multinazionali del mondo - nell'ordine, la General Motors, la Ford e la Toyota - superava il Prodotto interno lordo [in sigla: Pil] di molti paesi, inclusi Danimarca, Africa del Sud, Norvegia, Polonia, Portogallo, Venezuela, Pakistan, Egitto e molti altri. Il totale delle vendite delle cinque maggiori multinazionali - General Motors, Ford, Toyota, Exxon e Royal Dutch / Shell - fu, nel 1994, 871 miliardi di dollari: vale a dire più del triplo del Pil di tutti i paesi dell'Africa sub-sahariana presi assieme (246 miliardi di dollari) e quasi il doppio del Pil aggregato di tutti i Paesi dell'Asia del Sud (451 miliardi).
La globalizzazione nell'ambito del nuovo paradigma neoliberista è strettamente correlata con un acuirsi delle disuguaglianze e della povertà, sia a livello globale, sia a livelli regionali e nazionali.
Infatti, dal 1960 in poi la disuguaglianza economica globale non ha fatto che aumentare e, come denunciato nel Rapporto sullo sviluppo umano per il 1997 (pubblicato dall'Undp), ha raggiunto oggi "una soglia mai sperimentata in passato". I dati che corroborano questo giudizio sono moltissimi. Ne indico subito alcuni a solo titolo di esempio: altri verranno fuori man mano che procedo nel mio discorso.
- Dal 1960 al 1990 i paesi poveri con una popolazione complessiva pari al 20% della popolazione mondiale hanno registrato un calo nella loro parte del commercio mondiale da un già basso 4% ad un misero 1%. Parallelamente, nello stesso trentennio, il 20% più ricco della popolazione mondiale ha visto la propria quota del reddito globale salire dal 70 all'85%, mentre la quota del reddito globale del 20% più povero della popolazione mondiale ha subito una caduta da un già misero 2,3% ad un miserrimo 1,4%. Ciò significa che dal 1960 ad oggi la proporzione del reddito del 20% più ricco rispetto al reddito del 20% più povero della popolazione mondiale non ha fatto che aumentare: da 30 a 1 nel 1960, a 61 ad 1 nel 1991, per giungere alla proporzione di 78 a 1 nel 1994.
- Negli ultimi quindici anni lo sviluppo economico nel mondo si è verificato in modo estremamente disuguale. In 15 paesi esso e stato molto forte ed ha portato ad un rapido aumento di reddito per vari settori del miliardo e mezzo di persone che costituiscono la popolazione complessiva di questi paesi. Ma nello stesso quindicennio stagnazione o recessione economica hanno colpito più di cento paesi di cui fanno parte vari stati dell'Europa orientale ex comunista e gran parte dei paesi in via di sviluppo. Non a caso si tratta spesso di paesi con un grande debito estero e quindi sottoposti in modo molto duro al "programma di aggiustamenti strutturali" imposto dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. In questi cento paesi, che complessivamente hanno un quarto della popolazione mondiale, il reddito medio è caduto al di sotto di quello che era nel 1980.
Nel frattempo, il numero delle persone più ricche del mondo - i miliardari del dollaro - è salito da 157 nel 1989 a 358 nel 1996. L'anno scorso, questi 358 miliardari avevano assieme un reddito netto pari al reddito complessivo del 45% più povero della popolazione mondiale, costituito da 2 miliardi e mezzo di persone. Nel giro dell'ultimo anno il numero di miliardari è ulteriormente aumentato di 89, giungendo a 447: la ricchezza netta dei dieci più ricchi di questo gruppo è stata stimata a 133 miliardi di dollari, cifra che supera di una volta e mezzo il reddito complessivo di tutti i paesi meno avanzati.
Forte aumento di disuguaglianza economica si registra anche a livelli regionali. Qui i dati più drammatici riguardano i paesi ex comunisti dell'Europa dell'Est e dell'ex Unione Sovietica - le cosiddette "economie in transizione". In questa regione del mondo dall'89 in poi le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi sono cresciute vertiginosamente: e - è importante notarlo - questo aumento di disuguaglianza coincide in tutti i paesi di questa regione con un aumento di ricchezza per una classe di nuovi ricchi e un drammatico aumento di povertà per strati molto vasti di popolazione.
Posta una soglia di povertà di reddito pari a 4 dollari al giorno, in tutti i paesi dell'Est ex comunista si è registrata una fortissima crescita della percentuale di popolazione al di sotto di questa soglia; dal 4% del 1988 al 32% del 1994, ossia da 14 milioni di individui a 119 milioni. All'interno di questa enorme massa di poveri, i più colpiti, quelli la cui povertà di reddito è molto al di sotto dei 4 dollari giornalieri, sono le donne, i bambini e gli anziani.
Va aggiunto che l'introduzione dell'economia di mercato in chiave neoliberista e la politica degli "aggiustamenti strutturali" hanno portato in tutti questi paesi a grossi ridimensionamenti della spesa pubblica per i servizi sociali e alla drastica diminuzione dei sussidi familiari: tutto ciò, assieme alla grande disoccupazione, ha condotto ad un aumento di malnutrizione e sottonutrizione, specie tra i bambini, e ad un aumento di malattie, morti, suicidi e criminalità. In Russia, la speranza di vita per i maschi, che tra il 1950-'60 era salita da 58 a 63 anni, è oggi caduta di nuovo a 58 anni, ed è più bassa di quella dell'India.
Anche nei paesi industrializzati, la deregolamentazione finanziaria, lo smantellamento del settore pubblico, le privatizzazioni e gli altri "aggiustamenti strutturali" segnano la fine del welfare state e sono dovunque accompagnati da un forte aumento di disuguaglianza e povertà; tutti questi fattori, assieme alla rivoluzione informatica, stanno anche rimodellando il mercato del lavoro con un conseguente forte aumento di disoccupazione che colpisce soprattutto i giovani, le donne, gli immigrati e le minoranze etniche. Anche i salari reali sono stati tagliati, introducendo lavori part-time ed occupazioni temporanee, insicure e malpagate. A causa di questa nuova povertà, dell'incertezza per il posto di lavoro, dell'emarginazione sociale cui la disoccupazione di lungo periodo conduce, milioni di persone stanno fisicamente e psichicamente male: ma le parcelle dei medici cui si rivolgono vanno ad ingrossare il Pil e incidono positivamente sull'indice di crescita economica! Superficiale è la tesi che la nuova povertà nei paesi industrializzati sia in gran parte dovuta ad una debole crescita economica. E falsa è la tesi che la crescita economica comporti necessariamente un miglioramento per tutti ed in modo particolare per gli strati più poveri. Dipende piuttosto dai modelli di crescita e dalle politiche distributive adottate. A questo proposito è assai istruttivo un paragone tra Inghilterra e Svezia. Nel ventennio che va dal 1968 al 1988, in tutti e due questi paesi il Pil reale pro capite aumenta del 2,2%. In Inghilterra, però, il reddito pro capite del 20% più povero della popolazione in questo periodo aumenta soltanto dello 0,3%, mentre in Svezia, invece, aumenta del 6%. Ma in Svezia in questo periodo la socialdemocrazia è impegnata nella "politica solidale dei salari", mentre in Inghilterra fiorisce e si consolida il tatcherismo. Quasi nello stesso periodo (1971-1989), il Costarica, con un tasso di crescita del Pil pro capite inferiore a quello inglese (meno dell'1%), vede però il reddito pro capite del 20% più povero della sua popolazione crescere del 5%. In Norvegia, invece, nonostante una crescita economica del 3,4%, recenti dati mostrano che per il settore più povero della popolazione la situazione economica e sociale sta peggiorando.
La globalizzazione dell'economia nell'ambito del nuovo paradigma neoliberista è fondata sullo sfruttamento ed è intrisa di violenza strutturale. Esiste sfruttamento quando si traggono iniquamente vantaggi da altri; esiste violenza strutturale quando la gente muore di fame o conduce una vita grama a causa dei meccanismi e della logica delle strutture economiche, sociali, politiche dominanti.
Si consideri, ad esempio, la sovvenzione delle esportazioni agricole ed i sussidi concessi all'agricoltura negli Stati Uniti e in Europa che dominano il mercato globale dei prodotti agricoli. Questa politica di sovvenzioni crea una concorrenza iniqua per i paesi poveri e in via di sviluppo i quali si vedono esclusi dai grandi mercati agricoli dei paesi ricchi. Nel 1995 i paesi industrializzati hanno speso un totale di 182 miliardi di dollari in sussidi e sovvenzioni alla propria agricoltura. È stato calcolato che una riduzione del 30% delle sovvenzioni dei paesi industrializzati alla propria agricoltura comporterebbe un guadagno per i paesi in via di sviluppo di 45 miliardi di dollari all'anno.
Lo sfruttamento e la violenza strutturale insiti nella logica della globalizzazione in chiave neoliberista si colgono forse meglio di tutto nel sistema globale dei prestiti agli stati in via di sviluppo e dell'incasso degli interessi da parte dei grandi creditori del Nord. Il debito estero totale di tutti i paesi in via di sviluppo - tra cui vengono fatti rientrare anche la Russia e gli altri paesi ex comunisti - è giunto oggi alla cifra astronomica di due bilioni di dollari.
I tassi di interesse imposti ai paesi più poveri sui prestiti loro concessi dal grande capitale internazionale sono stati, per tutti gli anni Ottanta, il quadruplo degli interessi sui prestiti concessi ai paesi ricchi. In conseguenza di questa politica da usurai, il debito estero di molti paesi poveri è diventato un circolo vizioso che li dissangua e li rende preda delle condizioni poste dai grandi creditori del Nord e delle politiche neoliberiste di "aggiutamento strutturale" da essi imposte. Un esempio particolare ne sono i paesi dell'Africa sub-sahariana: questi paesi hanno tutti assieme un debito estero di 150 miliardi di dollari, per il quale continuano a pagare ai grandi creditori del Nord una somma superiore di quattro volte a quella che congiuntamente impiegano nel settore sociale per la tutela della salute delle loro popolazioni. Secondo calcoli dell'Unicef, con una spesa addizionale di 9 miliardi di dollari all'anno si potrebbe far fronte ai bisogni essenziali di tutta la popolazione dei paesi sub-sahariani nei settori della nutrizione e dell'istruzione: ma gli interessi sul debito estero costano a questi paesi 13 miliardi di dollari all'anno.
In molti dei paesi indebitati soltanto una piccola parte dei crediti ottenuti viene investita in progetti favorevoli alla crescita economica nazionale; notevole parte è invece spesa nell'importazione di beni di consumo dai paesi industrializzati per una minoritaria classe agiata di consumatori locali e nell'acquisto di armi; armi poi usate in guerre civili e conflitti armati interni che aumentano maggiormente la povertà tra le popolazioni colpite. Dalla Somalia al Perù, dal Rwanda alla ex Yugoslavia, alla base dei conflitti violenti, delle guerre civili, dei massacri etnici, dello sfascio della società civile, vi è il tracollo delle economie locali travolte dal debito estero e dalle politiche destabilizzanti imposte dai grandi creditori del Nord. E su questi conflitti i mercanti - legali e illegali - di armi fanno affari d'oro.
Il grande mercato delle armi - che come ogni mercato ha le sue lobby, e la sua pubblicità, e le sue grandi fiere internazionali, e le sue tangenti - è oggi dominato al 51% dagli Stati Uniti, che nel 1995 hanno venduto armi per quasi 10 miliardi di dollari (9 miliardi 894 milioni). Segue, a distanza, la Russia che nel 1995 rispondeva del 13% delle esportazioni mondiali (3.905 miliardi); ma è di questi giorni la notizia che la Russia prevede nuove esportazioni di armi per circa 7 miliardi di dollari. Al terzo posto nei paesi esportatori di armi si colloca la Germania la quale con l'8% delle esportazioni globali supera l'Inghilterra che risponde del 6% e la Francia che risponde del 5%. L'Italia, nel 1995, ha venduto armi per 324 milioni di dollari equivalenti al 2% delle esportazioni globali. Assieme, i paesi industrializzati rispondono del 94% delle esportazioni di armi nel mondo.
Una delle conseguenze di questo enorme mercato di armi - e una delle dimensioni della globalizzazione della violenza - è che in una settantina di paesi martoriati da conflitti violenti si trovano oggi sparse più di cento milioni di mine anti-uomo: ogni venti minuti un essere umano inciampa in una di esse e viene ucciso o invalidizzato, e le altre sono lì in attesa di uccidere, storpiare, invalidizzare altre decina di migliaia di persone, molte di esse oggi non ancora nate. Sino ad oggi il numero delle mine non ha fatto che crescere; ogni anno ne vengono disinnescate centomila, ma ne vengono piazzate due milioni di nuove. E abbiamo tutti letto in questi giorni come il presidente Clinton si è rifiutato di apporre la sua firma al patto anti mine approvato alla conferenza di Oslo da cento paesi.
La globalizzazione nel contesto del nuovo paradigma neoliberista ha dunque i suoi vincitori e i suoi vinti - ma in un processo ed in una gara che sono iniqui, perché sono dominati dallo strapotere delle forze congiunte del grande capitale e della grande finanza internazionale (Club di Parigi, Club di Londra) alleati con i gruppi più potenti dei paesi più ricchi e più forti (i G 7).
Quale che sia il principio della giustizia con cui la si giudica, l'attuale distribuzione delle risorse mondiali risulta profondamente ingiusta. Risulta ingiusta in base al principio utilitarista che prescrive la massimizzazione del benessere generale: questo principio richiede, infatti, una ridistribuzione molto ugualitaria delle risorse, in base alla legge di diminuzione dell'utilità marginale di esse: in parole povere, sottraendo parte della loro ricchezza ai ricchi e ridistribuendola ai poveri si diminuisce di poco il benessere dei ricchi ma si aumenta di molto quello dei poveri, e conseguentemente il benessere generale risulta massimizzato. Parimenti, l'attuale distribuzione mondiale delle risorse è incompatibile con i principi in cui si articola la concezione liberale della giustizia. Questi principi - come formulati dal filosofo americano John Rawls, il maggiore esponente odierno della concezione liberale della giustizia - richiedono l'affermazione dei diritti e delle libertà democratiche fondamentali a livello mondiale; richiedono altresì una ridistribuzione delle risorse economiche tale da massimizzare le aspettative di vita decente delle popolazioni più povere del pianeta. Si consideri anche la concezione libertaria della giustizia - di cui uno dei più noti fautori è il filosofo americano Robert Nozick: questa concezione insiste sui diritti fondamentali alla vita, alla salute, alla libertà; inoltre, essa fa valere un diritto pressoché assoluto di proprietà su ciò di cui si è entrati in possesso, a patto che non si siano violati i diritti fondamentali di altri. Vale a dire a patto che non si sia usata frode, violenza o coercizione. Ma l'attuale distribuzione delle risorse a livello mondiale è in gran parte proprio il risultato di politiche colonialiste e neocolonialiste di conquista, sfruttamento, violenza, coercizione e frode: è dunque ingiusta. E la dottrina libertaria della giustizia esige che tali ingiustizie siano rettificate - appunto attraverso una ridistribuzione delle risorse mondiali a favore delle vittime o dei discendenti più poveri, più deboli e più indifesi di esse.
Nel mondo d'oggi i più deboli e i più vulnerabili sono il miliardo e 300 milioni di esseri umani che vivono in condizioni di povertà assoluta, con meno dell'equivalente di un dollaro al giorno - seguiti da quell'altro miliardo e 700 milioni che si trova in condizioni di grande povertà.
Ai grandi attori del mercato, alle grosse multinazionali, al capitale e alla finanza internazionale, questi tre miliardi di esseri umani senza alcuna capacità di acquisto non interessano, neanche come riserva di forza lavoro a costi minimi; al Mercato basta quell'altra metà della popolazione mondiale, ed in particolare quel 15% di essa che ha i mezzi economici per consumare quei beni sempre più di lusso verso cui la produzione nell'economia capitalista globale è sempre più indirizzata.
Se poi, in seguito all'introduzione dell'economia di mercato in Cina, 250 milioni di cinesi - meno di un quarto della popolazione di quel paese - si arricchiscono e diventano efficaci consumatori, le "magnifiche sorti e progressive" del Mercato sono più che assicurate. Mezza umanità basta - una parte minore di essa come grande mostro consumatore, e una parte maggiore di essa come grande serbatoio di forza lavoro a basso costo. L'altra metà può morire nella miseria: e cosi, infatti, è - per usare il titolo di un validissimo libro di Susan George - "come muore l'altra meta del mondo" ("How the Other Half Dies").
L'alternativa al processo di globalizzazione violenta in corso è costituita dalle politiche di sviluppo umano sostenibile, pace positiva e uguaglianza reale di opportunità. La realizzazione di queste politiche - che sono interdipendenti e si rinforzano tra di loro - comporta una strenua lotta contro gli enormi interessi finanziari che oggi governano il mondo: la lotta è globale, è essenzialmente dal basso e passa necessariamente attraverso l'empowerment dei poveri della terra. A questa lotta stanno dando un fondamentale apporto decine di migliaia di organizzazioni popolari non governative e di movimenti sociali di promozione umana impegnati per l'implementazione dei diritti umani fondamentali, per le economie alternative, per il disarmo globale, per la protezione dell'ambiente e gli interessi vitali delle generazioni future... È nell'ambito di questo sistema - diverso da quello interstatale e veramente internazionale - che si elabora e verifica la nuova cultura della pace per il ventunesimo secolo.
Ed è in questo ambito che opera l'Unip, impegnata per la diffusione a livello locale, nazionale e globale della nuova cultura della pace, e per la formazione a quei ruoli attivi di diplomazia popolare e di lotta nonviolenta dal basso essenziali per bloccare la violenza della globalizzazione e la globalizzazione della violenza.
Bibliografia
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- George, S., Il debito del Terzo Mondo, Edizioni Lavoro, Roma 1988.
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- Rawls, J., A theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1971, tr. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.
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Fonte: Centro Ricerca per la Pace di Viterbo