Nei primi giorni della guerra in Libia, in molti si sono interrogati sulla posizione dei credenti italiani circa l’intervento militare e sul silenzio dei “pacifisti cattolici”. Un’interessante risposta l’ha fornita Luca Diotallevi, sociologo ed eminente collaboratore della Cei, in un articolo apparso su Il Riformista del 29 marzo.
Secondo Diotallevi, il magistero degli ultimi trent’anni ha portato la maggioranza dei credenti ad una svolta nel modo di pensare la fede in relazione al tema della pace; è un magistero, per Diotallevi, nel solco del Concilio Vaticano II e di Paolo VI, di stampo cattolico liberale “patrimonio di pochi (cattolici) diventato patrimonio di molti (cattolici)”, rilanciato da Giovanni Paolo II durante la prima crisi del Golfo, quando sottolineò il ruolo della Chiesa ‘pacificatrice’ e non ‘pacifista’, ripreso nell’omelia del card. Ruini alle esequie delle vittime di Nassyria e nei recenti interventi del card. Bagnasco. È questo percorso, secondo Diotallevi, che ha portato i cattolici da un pacifismo che negli anni ‘80 – si legge testualmente – “si manifestò con veemenza assumendo un ruolo da protagonista non solo nella Chiesa”, a più miti richieste alle istituzioni “di garantire l’ordine pubblico globale” senza “superare determinati limiti” ponendosi le “domande giuste: con quali basi legali, con quali obiettivi, con quali mezzi” si interviene?
Sono molti gli elementi discutibili di quell’articolo. Innanzi tutto, perché Diotallevi non inserisce nel magistero recente sulla pace la Pacem in Terris (1963) di Giovanni XXIII? «Riesce quasi impossibile – affermava Papa Roncalli – pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (n. 67). E perché un’interpretazione estensiva della Populorum Progressio (1967) di Paolo VI? In quell’enciclica “le parole a sostegno della lotta per la giustizia” si riferivano non alla legittimità di un intervento militare esterno per abbattere un tiranno, come implicitamente sostiene Diotallevi, bensì alle insurrezioni interne, giustificate solo «nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (n. 31). La differenza non è da poco. Di Giovanni Paolo II durante le due guerre del Golfo, la grande maggioranza dei cattolici ricorda soprattutto, più che la distinzione pacifista/pacificatore, la denuncia della «guerra avventura senza ritorno» (messaggio Urbi et orbi del Natale 1990) e l’esortazione: «ho il dovere di ricordare a tutti i più giovani, a tutti quelli che non hanno avuto questa esperienza: mai più la guerra» (Angelus del 16 marzo 2003). Diotallevi omette poi di riconoscere quanto siano ancora oggi patrimonio vivo dei cattolici italiani il don Primo Mazzolari del «tu non uccidere! », il don Lorenzo Milani della lettera ai cappellani militari, il vescovo Tonino Bello e il suo «in piedi, costruttori di pace!». Le parole di questi uomini di Dio hanno inciso tra i fedeli molto più che l’ambiguo «li fronteggeremo con tutto il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo» del cardinal Ruini dopo Nassyria.
Il radicamento ecclesiale di ciò è tale che quella che per Diotallevi è una “svolta” dei cattolici sulla pace, in realtà non sia altro che la “linea” dei vertici dell’episcopato: non a caso, l’articolo, anziché sulla stampa cattolica, è comparso su un quotidiano piccolo ma molto letto nei palazzi della politica. I tanti credenti che anelano alla pace, e non certo sulla base di quelli che Diotallevi ingenerosamente definisce “moralismi più collusi che angelici” (collusi con chi?), non hanno compiuto “svolte”. In silenzio e disorientati, sperano in un’educazione alla pace dal sapore di profezia, chiedendosi: «Sentinella, quanto resta della notte?».