La paura e l'insicurezza sono elementi quotidiani delle vita di ciascuno di noi, sia nelle relazioni personali che in quelle sociali. Il dramma e la mistificazione avviene quando la politica cessa di esplorare la paura e diventa invece politica della paura, alimentandola e dilatandola verso "i nemici" di turno (pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza", n. 737 del 20 febbraio 2009).
Entrare in contatto con le proprie paure, significa esplorarle ed elaborarle per procedere in quel sentiero della conoscenza di sé.
Entrare in confidenza con la propria pancia, con il mondo e con il vissuto delle emozioni è sicuramente un processo di crescita e di consapevolezza, così difficile spesso per noi uomini, ma che è realmente un'opportunità di crescita.
La politica può aiutare questi processi intimi, non entrandovi dentro, ma pensando ad un ambiente, ad un territorio, ad un insieme di relazioni che li renda possibili e praticabili: in questo senso la politica è altro rispetto alla pancia, ma non ne ignora l'esistenza.
Tutto questo assume ancora maggiore importanza quando quelle paure, intime e profonde, si traducono in relazioni alterate con l'altro: allora sì che è necessario il dispiegarsi di un progetto alto di società, nella quale si articolano le diverse relazioni: quelle tra le persone, quelle tra le forze sociali, quelle economiche, culturali, religiose, occupazionali...
A questo livello una Politica alta deve essere in grado di dispiegare una capacità di interpretare queste paure e sgretolarle, disegnando un progetto ed un orizzonte nel quale vengano costruiti sistemi di relazione più alti e avanzati, nella direzione del rispetto dell'uomo, a prescindere del suo sesso, passaporto, fede religiosa...
Il problema emerge, come ormai da troppi anni sta accadendo nel nostro paese, quando la politica fa suoi i mal di pancia, e da politica che legge la paura, diventa politica della paura, perché solo in tale contesto trova fonte di alimentazione di se stessa.
Una politica quindi che non ha nessun interesse ad elaborare le incertezze e i sensi di insicurezza, perché senza questi la sua stessa esistenza sarebbe minata. Questa politica così squallida e becera ha necessità di aumentare e dilatare la percezione di paura.
La storia è costellata di esperienze di politiche della paura, e sempre tutte finalizzate alla costituzione di un regime e di un sistema autoritario, nel quale, di volta in volta, sia identificato un nemico, un capro espiatorio verso il quale indirizzare la paura passiva delle persone (leggi razziali, apartheid...).
Non elaborare la paura porta a chiudersi nel proprio castello fortificato, sempre più omogeneo, convinti così di evitare di essere travolti da tutto quello che fuori precipita, incapaci di decodificare quanto accade intorno a noi... ed ogni strumento (dall'economia, alla scuola e al sistema dei media) deve essere orientato a non alimentare il senso critico.
In questo senso la politica della paura ha bisogno di passività, di accettazione del nemico verso il quale indirizzare rabbia e odio.
Hannah Arendt (in "la banalità del male", "le origini del totalitarismo" e altri testi ancora) ha esplorato in maniera profonda questo mondo della passività, cogliendo come questo sia l'humus dentro il quale può radicarsi sia un regime autoritario che quei sistemi che, in maniera dolce, riducono progressivamente gli spazi della democrazia reale ed efficace.
Che fare dinanzi a questo processo che da anni è in atto nel nostro paese, così come in molti stati occidentali?
Occorrerebbe il coraggio di una Politica altra, capace non di adattarsi alla corrente, lasciandosi trascinare, ma costruire, lentamente, un sistema culturale e di scelte di governo che indichino un percorso diverso, che ne rendano manifesta la sua possibilità.
Il coraggio non di inseguire il consenso, ma quello di costruire consenso su un progetto e un orizzonte, del quale si comprenda la possibilità di essere realizzato.
Il primo passo, tuttavia, è quello di assumere la complessità come condizione che non può essere sfuggita con semplificazioni facili, proprio perché queste sono diventate lo strumento della politica della paura: per costruire passività sono necessari messaggi semplici, che facciano parlare la pancia senza esplorarla.
Solo cogliendo la complessità delle contraddizioni sociali (dentro alle quali vivono anche i nostri timori e le nostre insicurezze), posso fare in modo che l'agire politico e la costruzione di processi di democrazia reale e vera dialoghino anche con la paura e le emozioni, senza fare in modo che queste governino.
Solo la politica della complessità è in grado di arginare il degrado etico e politico della politica della paura.
La politica della complessità riconduce la pancia all'interno di una poliedricità, in uno sforzo di far emergere le contraddizioni e le diverse problematicità e come queste si intersecano tra di loro, senza negarle, ma anche senza ridurle a semplificazioni fuorvianti.
Una politica altra rispetto a quella che respiriamo quotidianamente, più faticosa, forse più lenta, ma l'unica in grado di far crescere consapevolezza e dilatare, non la paura, ma il sistema delle relazioni e dei diritti.
Troppo spesso, anche tra le forze progressiste, si è rinunciato ad accogliere questa sfida, omologandoci, chi più chi meno, alle logiche della politica della paura, con il risultato che si è contribuito a far crescere un sistema culturale dentro al quale non siamo più capaci di indignarci, di decifrare le situazioni di degrado umano, di perdita o negazione dei diritti, di riduzione degli spazi di agibilità democratica... Qualcosa che ha attraversato le nostre menti e i nostri cuori, e, grazie a ciò, ora può tradirsi in norme e istituzioni.
Pensiamo al centro di Lampedusa: quello si chiama "campo di concentramento" e se un italiano in un qualsiasi paese del terzo mondo fosse trattato così ci indigneremo, a prescindere della colpa commessa.
Eppure tolleriamo quel campo di concentramento e quelle condizioni, così come accettiamo che un barbone sia allontanato dai nostri centri storici per evitare che la sua vista ci dia fastidio, o, come a Firenze, per evitare che qualcuno ci inciampi.
Ma una politica altra può essere costruita proprio offrendo a quelle paure e a quel senso di insicurezza (amplificato poi adesso dalla profonda crisi economica che ci attanaglia) un percorso di uscita "altro" rispetto a quello offerto dal pensiero dominante.
Per cui è necessario partire proprio da quelle condizioni, senza slogan, ma mettendo in atto un agire politico ed un percorso che segni realmente la differenza e aiuti la costruzione di una cultura altra rispetto a quella della semplice paura.
Se il messaggio che viene mandato (con i media ma anche nella formulazione delle leggi) riduce lo stupro di una donna ad uno stupro semplicemente etnico vengono messe in atto due mistificazioni profonde: sposto l'attenzione sullo straniero e sull'etnia a cui esso appartiene e tralascio l'esercizio del dominio di genere del maschio sulla donna come causa della violenza.
Il soggetto non è più la vittima e la violenza compiuta, ma il fatto che il violentatore sia straniero... e su questa mistificazione si alimenta la paura dell'immigrato, dell'estraneo.
La rabbia non è cresciuta perché da anni (le violenze non sono aumentate particolarmente) ogni due ore una donna viene violentata (per lo più da italiani e familiari o amici), ma perché, in questi ultimi tre casi, questo odioso reato è stato compiuto da stranieri.
Questa è mistificazione.
Stare dentro la complessità significa non lasciarsi trascinare dal bisogno della politica della paura di dilatare il nemico, ma significa, veramente, cogliere tutta la dimensione del gesto e la sua poliedricità... centrare l'attenzione sul reato di violenza, ma su tutti, non solo su quelli commessi dagli stranieri. Adeguare le pene, curare quando ciò è necessario, ma intervenire sul reato di violenza e intervenire su quella cultura di dominio dell'uomo che si infrange su una crescita di consapevolezza della donna.
Ancor più grave è poi proporre, dinanzi ad un qualsiasi reato compito da un immigrato, una reazione che vada a colpire l'intera comunità degli stranieri... fino a mettere in atto gli sgomberi dei campi e delle abitazioni...
Certe ritorsioni, purtroppo attuali, ricordano molto gli anni dolosi vissuti dall'Europa.
Se dinanzi alla percezione di paura e al senso di insicurezza che si respira nelle nostre città, la politica che vuole ampliare gli spazi di partecipazione non è capace di leggere e decodificare i gesti di microcriminalità e le azioni delittuose che vengono compiute, comprendendo come molte di queste nascano dalla emarginazione, dalla devianza, dall'abbandono dei territori, dal degrado di un territorio, sotto l'aspetto economico, urbanistico, commerciale... verranno offerte solo soluzioni legate all'ordine pubblico, al maggiore controllo del territorio da parte delle forze dell'ordine (fino a teorizzare le ronde), verrà operata una semplificazione del problema, contribuendo ad alimentare la passività delle persone.
Una politica altra è capace, coinvolgendo le persone in un processo di analisi e di crescita, a porre davanti la poliedricità del problema e delle modalità per affrontarla: adottando, ad esempio, politiche sinergiche che tengano insieme le azioni di ordine pubblico, gli interventi sociali a prescindere dalla cittadinanza, azioni culturali, interventi di decoro urbano, di animazione del territorio, di illuminazione, di crescita del commercio... in un processo non calato dall'alto ma che veda le diverse comunità coinvolte, in modo da far si che ciascuno si senta parte di quel pezzo di territorio.
Se la mia politica dinanzi alla "paura" si limita a materializzarsi semplicemente con ordinanze che introducono il divieto a chiedere l'elemosina, punire i lavavetri... non è un segnale di cogliere in quella realtà la complessità che esprime, che contributo all'insieme delle persone ad elaborare una cultura della complessità.
Il mio intervento semplifica il tutto ad eliminare la vista del problema, non la sofferenza degli ultimi, dai quali, secondo me, nessuna politica altra può prescindere.
Le azioni contro l'abusivismo commerciale, ad esempio, generalmente non sono finalizzate a prevenire quel tipo di reato, ma spesso sono semplicemente uno strumento di azione poliziesca contro l'immigrato quando semplicemente un azione per togliere a noi semplicemente un fastidio... perché diversamente sarebbero altri gli oggetti dell'intervento (come quando nell'azione contro lo spaccio di droga non si interviene sul piccolo spacciatore, ma si cerca il grosso fornitore).
Questi piccoli esempi, ma tanti altri potrebbero essere fatti, chiedono alla politica non di negare il disagio o la problematicità, ma di operare dinanzi a quelle situazioni intervenendo da tutti i punti di vista, cogliendo la poliedricità di questi ed offrendo soluzioni poliedriche... ma soluzioni "altre" rispetto a quelle della paura.
Una politica capace di stare sulla realtà presente, avendo ben chiara la storia passata e l'orizzonte nel quale camminare... solo così forse ricominceremo ad indignarci e a sognare.
Entrare in confidenza con la propria pancia, con il mondo e con il vissuto delle emozioni è sicuramente un processo di crescita e di consapevolezza, così difficile spesso per noi uomini, ma che è realmente un'opportunità di crescita.
La politica può aiutare questi processi intimi, non entrandovi dentro, ma pensando ad un ambiente, ad un territorio, ad un insieme di relazioni che li renda possibili e praticabili: in questo senso la politica è altro rispetto alla pancia, ma non ne ignora l'esistenza.
Tutto questo assume ancora maggiore importanza quando quelle paure, intime e profonde, si traducono in relazioni alterate con l'altro: allora sì che è necessario il dispiegarsi di un progetto alto di società, nella quale si articolano le diverse relazioni: quelle tra le persone, quelle tra le forze sociali, quelle economiche, culturali, religiose, occupazionali...
A questo livello una Politica alta deve essere in grado di dispiegare una capacità di interpretare queste paure e sgretolarle, disegnando un progetto ed un orizzonte nel quale vengano costruiti sistemi di relazione più alti e avanzati, nella direzione del rispetto dell'uomo, a prescindere del suo sesso, passaporto, fede religiosa...
Il problema emerge, come ormai da troppi anni sta accadendo nel nostro paese, quando la politica fa suoi i mal di pancia, e da politica che legge la paura, diventa politica della paura, perché solo in tale contesto trova fonte di alimentazione di se stessa.
Una politica quindi che non ha nessun interesse ad elaborare le incertezze e i sensi di insicurezza, perché senza questi la sua stessa esistenza sarebbe minata. Questa politica così squallida e becera ha necessità di aumentare e dilatare la percezione di paura.
La storia è costellata di esperienze di politiche della paura, e sempre tutte finalizzate alla costituzione di un regime e di un sistema autoritario, nel quale, di volta in volta, sia identificato un nemico, un capro espiatorio verso il quale indirizzare la paura passiva delle persone (leggi razziali, apartheid...).
Non elaborare la paura porta a chiudersi nel proprio castello fortificato, sempre più omogeneo, convinti così di evitare di essere travolti da tutto quello che fuori precipita, incapaci di decodificare quanto accade intorno a noi... ed ogni strumento (dall'economia, alla scuola e al sistema dei media) deve essere orientato a non alimentare il senso critico.
In questo senso la politica della paura ha bisogno di passività, di accettazione del nemico verso il quale indirizzare rabbia e odio.
Hannah Arendt (in "la banalità del male", "le origini del totalitarismo" e altri testi ancora) ha esplorato in maniera profonda questo mondo della passività, cogliendo come questo sia l'humus dentro il quale può radicarsi sia un regime autoritario che quei sistemi che, in maniera dolce, riducono progressivamente gli spazi della democrazia reale ed efficace.
Che fare dinanzi a questo processo che da anni è in atto nel nostro paese, così come in molti stati occidentali?
Occorrerebbe il coraggio di una Politica altra, capace non di adattarsi alla corrente, lasciandosi trascinare, ma costruire, lentamente, un sistema culturale e di scelte di governo che indichino un percorso diverso, che ne rendano manifesta la sua possibilità.
Il coraggio non di inseguire il consenso, ma quello di costruire consenso su un progetto e un orizzonte, del quale si comprenda la possibilità di essere realizzato.
Il primo passo, tuttavia, è quello di assumere la complessità come condizione che non può essere sfuggita con semplificazioni facili, proprio perché queste sono diventate lo strumento della politica della paura: per costruire passività sono necessari messaggi semplici, che facciano parlare la pancia senza esplorarla.
Solo cogliendo la complessità delle contraddizioni sociali (dentro alle quali vivono anche i nostri timori e le nostre insicurezze), posso fare in modo che l'agire politico e la costruzione di processi di democrazia reale e vera dialoghino anche con la paura e le emozioni, senza fare in modo che queste governino.
Solo la politica della complessità è in grado di arginare il degrado etico e politico della politica della paura.
La politica della complessità riconduce la pancia all'interno di una poliedricità, in uno sforzo di far emergere le contraddizioni e le diverse problematicità e come queste si intersecano tra di loro, senza negarle, ma anche senza ridurle a semplificazioni fuorvianti.
Una politica altra rispetto a quella che respiriamo quotidianamente, più faticosa, forse più lenta, ma l'unica in grado di far crescere consapevolezza e dilatare, non la paura, ma il sistema delle relazioni e dei diritti.
Troppo spesso, anche tra le forze progressiste, si è rinunciato ad accogliere questa sfida, omologandoci, chi più chi meno, alle logiche della politica della paura, con il risultato che si è contribuito a far crescere un sistema culturale dentro al quale non siamo più capaci di indignarci, di decifrare le situazioni di degrado umano, di perdita o negazione dei diritti, di riduzione degli spazi di agibilità democratica... Qualcosa che ha attraversato le nostre menti e i nostri cuori, e, grazie a ciò, ora può tradirsi in norme e istituzioni.
Pensiamo al centro di Lampedusa: quello si chiama "campo di concentramento" e se un italiano in un qualsiasi paese del terzo mondo fosse trattato così ci indigneremo, a prescindere della colpa commessa.
Eppure tolleriamo quel campo di concentramento e quelle condizioni, così come accettiamo che un barbone sia allontanato dai nostri centri storici per evitare che la sua vista ci dia fastidio, o, come a Firenze, per evitare che qualcuno ci inciampi.
Ma una politica altra può essere costruita proprio offrendo a quelle paure e a quel senso di insicurezza (amplificato poi adesso dalla profonda crisi economica che ci attanaglia) un percorso di uscita "altro" rispetto a quello offerto dal pensiero dominante.
Per cui è necessario partire proprio da quelle condizioni, senza slogan, ma mettendo in atto un agire politico ed un percorso che segni realmente la differenza e aiuti la costruzione di una cultura altra rispetto a quella della semplice paura.
Se il messaggio che viene mandato (con i media ma anche nella formulazione delle leggi) riduce lo stupro di una donna ad uno stupro semplicemente etnico vengono messe in atto due mistificazioni profonde: sposto l'attenzione sullo straniero e sull'etnia a cui esso appartiene e tralascio l'esercizio del dominio di genere del maschio sulla donna come causa della violenza.
Il soggetto non è più la vittima e la violenza compiuta, ma il fatto che il violentatore sia straniero... e su questa mistificazione si alimenta la paura dell'immigrato, dell'estraneo.
La rabbia non è cresciuta perché da anni (le violenze non sono aumentate particolarmente) ogni due ore una donna viene violentata (per lo più da italiani e familiari o amici), ma perché, in questi ultimi tre casi, questo odioso reato è stato compiuto da stranieri.
Questa è mistificazione.
Stare dentro la complessità significa non lasciarsi trascinare dal bisogno della politica della paura di dilatare il nemico, ma significa, veramente, cogliere tutta la dimensione del gesto e la sua poliedricità... centrare l'attenzione sul reato di violenza, ma su tutti, non solo su quelli commessi dagli stranieri. Adeguare le pene, curare quando ciò è necessario, ma intervenire sul reato di violenza e intervenire su quella cultura di dominio dell'uomo che si infrange su una crescita di consapevolezza della donna.
Ancor più grave è poi proporre, dinanzi ad un qualsiasi reato compito da un immigrato, una reazione che vada a colpire l'intera comunità degli stranieri... fino a mettere in atto gli sgomberi dei campi e delle abitazioni...
Certe ritorsioni, purtroppo attuali, ricordano molto gli anni dolosi vissuti dall'Europa.
Se dinanzi alla percezione di paura e al senso di insicurezza che si respira nelle nostre città, la politica che vuole ampliare gli spazi di partecipazione non è capace di leggere e decodificare i gesti di microcriminalità e le azioni delittuose che vengono compiute, comprendendo come molte di queste nascano dalla emarginazione, dalla devianza, dall'abbandono dei territori, dal degrado di un territorio, sotto l'aspetto economico, urbanistico, commerciale... verranno offerte solo soluzioni legate all'ordine pubblico, al maggiore controllo del territorio da parte delle forze dell'ordine (fino a teorizzare le ronde), verrà operata una semplificazione del problema, contribuendo ad alimentare la passività delle persone.
Una politica altra è capace, coinvolgendo le persone in un processo di analisi e di crescita, a porre davanti la poliedricità del problema e delle modalità per affrontarla: adottando, ad esempio, politiche sinergiche che tengano insieme le azioni di ordine pubblico, gli interventi sociali a prescindere dalla cittadinanza, azioni culturali, interventi di decoro urbano, di animazione del territorio, di illuminazione, di crescita del commercio... in un processo non calato dall'alto ma che veda le diverse comunità coinvolte, in modo da far si che ciascuno si senta parte di quel pezzo di territorio.
Se la mia politica dinanzi alla "paura" si limita a materializzarsi semplicemente con ordinanze che introducono il divieto a chiedere l'elemosina, punire i lavavetri... non è un segnale di cogliere in quella realtà la complessità che esprime, che contributo all'insieme delle persone ad elaborare una cultura della complessità.
Il mio intervento semplifica il tutto ad eliminare la vista del problema, non la sofferenza degli ultimi, dai quali, secondo me, nessuna politica altra può prescindere.
Le azioni contro l'abusivismo commerciale, ad esempio, generalmente non sono finalizzate a prevenire quel tipo di reato, ma spesso sono semplicemente uno strumento di azione poliziesca contro l'immigrato quando semplicemente un azione per togliere a noi semplicemente un fastidio... perché diversamente sarebbero altri gli oggetti dell'intervento (come quando nell'azione contro lo spaccio di droga non si interviene sul piccolo spacciatore, ma si cerca il grosso fornitore).
Questi piccoli esempi, ma tanti altri potrebbero essere fatti, chiedono alla politica non di negare il disagio o la problematicità, ma di operare dinanzi a quelle situazioni intervenendo da tutti i punti di vista, cogliendo la poliedricità di questi ed offrendo soluzioni poliedriche... ma soluzioni "altre" rispetto a quelle della paura.
Una politica capace di stare sulla realtà presente, avendo ben chiara la storia passata e l'orizzonte nel quale camminare... solo così forse ricominceremo ad indignarci e a sognare.