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Le ragioni della pace

Pubblichiamo tre relazioni che sono state tenute all'interno dell'iniziativa ““ Qui sotto ... un rifugio antiaereo! - due chiacchere sui rifugi antaerei a Massa sulla guerra e sulla pace” svoltasi il 22 luglio scorso: “La scoperta e il recupero dei rifugi: il come e il perché” e “I bombardamenti aerei armi di guerra e di strage”, tenute dall'ing. Andrea Bontempi, e “Le ragioni della pace”, tenuta da Gino Buratti dell'Accademia Apuana della Pace.

Di seguito l'intervento di Gino Buratti.

La narrazione sui rifugi antiaerei e sui bombardamenti, svolta in maniera eccezionale nelle due relazioni tenute da Andrea Bontempi, ritengo che sia l'occasione per una riflessione più ampia sulla guerra e sul suo utilizzo per la risoluzione dei conflitti e delle controversie, sia essere tra nazioni od interne.

In qualche modo il rifugio antiaereo diventa la rappresentazione, tragica, di cosa significhi realmente un bombardamento, una guerra.

Da questa rappresentazione ritengo sia utile partire, andando oltre il semplice impatto emotivo, ma svolgendo un ragionamento se sia possibile o necessario cercare altre strade per risolvere i conflitti.

Il mio punto di vista non è ovviamente “neutrale”, perché non si può essere “neutrali” parlando di pace e di guerra.

La prospettiva dalla quale provo a tessere un ragionamento con voi è quella della nonviolenza, ma non di un generico pacifismo di maniera, che pone questo orizzonte nelle icone degli ideali e dei valori supremi e non terreni, quanto invece la prospettiva di una scelta ineluttabile, pena la nostra distruzione, e che, come ogni politica internazionale, necessita di elaborazione, studio... insomma un approccio “rigoroso”, così come “rigorosi” sono gli studi dei centri di elaborazione delle strategie militari.

Una ricerca di un'alternativa che non è semplicemente solo dettata da una visione ideale, ma che diventa, paradossalmente, una necessità imprescindibile.

 

Liberare il campo da “pre-giudizi”

Il ragionamento che provo a svolgere necessita tuttavia di liberarsi da alcuni “pre-giudizi” che spesso sono presenti in noi.

Il primo riguarda “l'ineluttabilità della guerra”, perché ci è sempre stata e sempre ci sarà. In tal senso giova ricordare che anche la schiavitù c'era sempre stata, ma alla fine è prevalsa l'idea che essa debba essere abolita, perché considerata lesiva della dignità dell'uomo. Al pari della schiavitù anche l'apartheid razzista, quando riconosciuta, solo da qualche decennio è considerata un crimine, sebbene ancor oggi tolleriamo quella pratica costantemente da Israele.

Il secondo punto riguarda invece la “cultura di pace” e “la nonviolenza”, che non possono essere relegate a semplici ideali, icone da mettere in un altare. Sono approcci al conflitto che richiedono rigore, formazione e, sopratutto, una visione “globale” del problema, che tenga insieme bisogno di trovare soluzioni nell'ottica di giustizia, equità, sostenibilità, rispetto dell'uomo, abolizione delle discriminazioni e disuguaglianze...

 

La cultura di guerra dopo la prima guerra mondiale

Parlo di “cultura di guerra”, nonostante la consideri un disvalore, perché essa a tutti gli effetti è frutto non di improvvisazione, ma di scelte studiate, valutate, elaborate, simulate... non è mai frutto di casualità, ma frutto di una precisa strategia.

Per il presidente americano Wilson la “Grande Guerra”, la prima guerra mondiale (1914-1918), doveva essere “una guerra per porre fine a tutte le guerre e per affermare la democrazia”, la consueta retorica, che accompagna sempre tutte le guerre, anche quelle così dette “umanitarie”, celando, come sempre, anche gli altri motivi, spesso più preponderanti rispetto alle “nobili azioni”, quali ad esempio il timore che, con la sconfitta dell'Inghilterra, potessero fallire tutte quelle banche americane che avevano elargito abbondanti prestiti a quel paese.

Sull'orrore di quella guerra, con 26.000.000 di morti, di cui il 50% civili, tante pagine sono state scritte... ma sicuramente non ha posto fine a tutte le guerre, ne è stata portatrice di democrazia.

La tabella seguente, (fonte: World Military and Social Expenditures) ci indica come a partire dalla seconda guerra mondiale venga teorizzato un nuovo modello di strategia militare, finalizzata a distruggere il morale della popolazione nemica, il cui effetto principale è l'aumento esponenziale del numero di vittime civili.

Conflitto

Periodo

n. morti

% vittime civili

Guerra di Corea

1950-53

3.000.000

50%

Vietnam

1960-75

2.358.000

58%

Guerra civile Nigeria (Biafra)

1967-70

2.000.000

50%

Cambogia

1970-89

1.221.000

69%

Afghanistan (intervento Russo)

1978-92

1.500.000

67%

Sudan

1994

1.500.000

97%

Cecenia

Dal 1994

250.000

99%

Congo

1997

3.000.000

 

Si afferma il principio che la guerra viene vinta non sconfiggendo militarmente un esercito, ma suscitando terrore e discredito, per far questo l'unico strumento reale sono i bombardamenti e il seminare panico nella popolazione, magari utilizzando anche lo stupro di massa.

Come risposta ai bombardamenti su Londra dei nazisti, Winston Churchill, con i suoi consiglieri, e il beneplacito del comando americano, per minare il morale del popolo tedesco, decisero di iniziare i bombardamenti a tappeto dei quartieri operai tedeschi (Francoforte, Amburo, Colonia, Dresda), anche quando ritenuti “militarmente” non significativi.

Sull'inutilità per conseguire la vittoria finale dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki tanto si è scritto, sta di fatto che, per affermare la supremazia nucleare degli USA rispetto all'URSS, l'intellighenzia militare ha accettato di sacrificare dalle 100.000 alle 200.000 vittime “dirette”.

Il fisico ungherese, poi naturalizzato americano, Leo Szilard, uno dei partecipanti del progetto Progetto Manhattan, dichiarò esplicitamente che “Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati.”

Si pensi che nel XX secolo il termine "genocidio" fu coniato nel 1944 per descrivere la distruzione deliberata e sistematica di un gruppo razziale, politico e culturale. Nel 1957 è stato per la prima volta impiegato il termine "overkill" (letteralmente 'uccisione eccessiva') per descrivere un uso della forza ben superiore a quello necessario per eliminare l'obiettivo.

Lo sviluppo tecnologico e la ricerca dell'industria militare sono andati progressivamente nell'ottica di “seminare terrore”, pensiamo non soltanto alle armi nucleari, ma a tutte quelle armi che sono state pensate e progettate per creare distruzione e terrore: bombe a grappolo, armi arricchite con uranio impoverito, le armi “strane” utilizzate da Israele in occasione dell'azione “piombo fuso”, per arrivare ormai ai “droni”, robot che volando possono seminare terrore senza necessariamente mettere a rischio i nostri soldati.

Di questa tendenza ne abbiamo avuto conferma in tutti i grandi conflitti di questi ultimi anni (Iraq , Afghanistan, la permanente guerra Israele-Palestina...), nonché nelle atrocità del conflitto in Serbia e in Bosnia.

 

Quali risoluzioni con le guerre?

Pur nella consapevolezza che le motivazioni di un conflitto sono molteplici, alcune delle quali non possono essere dichiarate, ma che emergono poi quando la fase acuta dello stesso è terminata, è utile cercare una valutazione sui risultati che i diversi conflitti hanno determinato.

Ovviamente tali considerazioni non vogliono certo “sminuire” la portata del conflitto, ma semplicemente tentare di ragionare, in maniera “laica”, se lo strumento adottato per la soluzione ha avuto un qualche esito concreto, valutando, altresì, il risultato conseguito in rapporto ai mezzi impiegati e alle vittime e ai danni causati, nonché alla situazione che ne è derivata con l'impiego di quello strumento militare.

Ritengo che si debba tentare un'analisi di questo tipo, riflettendo inoltre sull'atteggiamento che abbiamo assunto alle prime avvisaglie di un conflitto e su quanto, in maniera complice o meno, lo abbiamo lasciato, di proposito, incancrenire.

Se riflettiamo sui conflitti in Corea e Vietnam risulta evidente come quelle guerre non siano servite a migliorare la situazione, ma anzi a peggiorarla, sia in termini di diritti umani sia per quanto riguarda le relazioni tra i popoli.

La nostra impotenza e incapacità di gestire in maniera altra i conflitti ha permesso in Congo e in Sudan il perpetuarsi di genocidi, che, inevitabilmente, hanno creato una tale frattura che solo dopo numerose generazioni e con politiche intelligenti si potrà tentare di superare.

La risoluzione militare adottata nel conflitto tra la Serbia e il Kosovo cosa ha prodotto dopo quasi 20 anni? Nuove pulizie etniche (questa volta nei confronti dei serbi), assenza di relazioni tra i due popoli, nessuna soluzione del problema dell'autodeterminazione del Kosovo.

Il conflitto permanente di Israele nel medio oriente, ha solo dilaniato un'area, impedendo una vita normale anche agli israeliano, assicurando solo il vantaggio di un'economia di guerra ai vari governanti.

In Afghanistan, sia durante il tentativo di occupazione dell'Armata Rossa che di quello attuale delle truppe occidentali, il risultato è sempre stato quello di un rafforzamento del potere dei signori della guerra, che sono quelli che davvero hanno sempre controllato il paese.

In Iraq quale risultato, se non quello delle compagnie petrolifere e quello delle industrie e aziende militari? Le bombe di questi giorni ci consegnano, dopo 10 anni di occupazione, un paese dilaniato da un profonda guerra civile interna, con un governo locale non ritenuto credibile.

Recentemente abbiamo liberato la Libia da un dittatore con il quale fino a poco tempo prima facevamo affari d'oro, lasciando anche quel paese, nonostante il velo dell'informazione che è ormai calato, in preda ad una guerra interna, sempre più subdola e latente.

In Siria scopriamo improvvisamente i crimini del dittatore e subito sposiamo un'opposizione talmente diversificata e divisa, incapace di proporsi come alternativa credibile.

Quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni (ndr 15 agosto), con i massacri perpetuati dall'esercito nei confronti dei Fratelli Musulmani, a rescindere del giudizio politico su questi ultimi, sono un indicatore della cultura che sta alla base di un esercito, una cultura che non ammette spazi di mediazioni e di ascolto delle ragioni dell'altro.

Quanti decenni ci vorranno per sanare, se mai sarà possibile, questa frattura che si è determinata a livello di società egiziana.

L'esperienza in Serbia e Kosovo non sono bastate, puntualmente perpetuiamo i soliti errori.

Di fatto non esiste conflitto, forse nemmeno quello della seconda guerra mondiale (da cui è partorita la guerra fredda) che abbiano permesso davvero di risolvere le situazioni, intendendo per risolvere la fine di una situazione di sofferenza, e l'inizio di relazioni diverse.

E' da questa, per un verso atroce, constatazione che dobbiamo partire per pensare se esistono forme di soluzione dei conflitti, siano questi interni ad una nazione, o tra nazioni.

 

Esperienze di lotte nonviolente

La ricerca di forme altre di soluzione dei conflitti non è una verità rivelata, data una volta per tutte, ma è frutto di ricerca, formazione, investimenti... e anche di una concezione diversa delle relazioni tra i popoli.

E', soprattutto, una scelta alternativa a quella militare e come tale deve essere trattata.

L'esperienza di Gandhi nella liberazione dell'India da una potenza che in materia di oppressione non era certo, come dire, signorile, è stata significativa, al pari delle lotta contro l'apartheid di Mandela in Sud Africa, per un verso ancor più importante perché ha visto il passaggio dalla scelta della lotta armata, che aveva portato tutto ad un impasse, allo sconvolgimento dell'azione nonviolenta.

Certo proprio queste due esperienze, lette da un alto guardando all'assassinio di Gandhi, ma anche osservando l'attuale sviluppo e situazione dei due paesi (che rappresentano difatto la negazione dei principi cardine della nonviolenza), ci sono di monito per farci capire che la nonviolenza non è semplicemente una strategia per risolvere i conflitti, ma è il costruire relazioni diverse, e tutto questo comporta il continuo e persistente lavoro di ridefinizione dei processi nonviolenti, di aggiornamento, di adeguamento, in una interconnessione continua con le pratiche di democrazia partecipata, riduzione delle disuguaglianza, estensione dei diritti civili, continuo dialogo e attenzione alle “verità” di cui l'altro, sia esso singola persona o soggetto organizzato, è portatore.

Interessante, in questo senso, la ricerca di Anna Bravo “La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato” (Laterza, Bari, 2013), nella quale, come già fatto in altri testi, propone una lettura dei conflitti, ponendo al centro le esperienze di nonviolenza, quelle che spesso nella retorica ufficiale vengono dimenticate.

Proprio qui nella nostra terra abbiamo vissuto l'esperienza di disobbedienza civile delle donne di Carrara rispetto all'ordine dei nazi-fascisti di abbandonare la città, così come altri gesti.

In quella ricerca ci sono due parti che ritengo siano importanti, spesso sottovalutate.

La prima riguarda il salvataggio in Danimarca di quasi tutti gli ebrei presenti nel paese, nonostante l'occupazione nazista. Un gesto di “massa”, perché la nonviolenza incide solo se diventa azione di collettiva e partecipata (non servono alla nonviolenza i gesti eclatanti individuali, sicuramente favorito dal clima culturale e politico di quella nazione, che già aveva resistito in maniera nonviolenta nel Nordschleswig sotto la Prussia.

La seconda proprio il Kosovo, perché quell'esperienza diventa proprio emblematica di nostro livello culturale. Con la morte di Tito era evidente a tutti gli osservatori che quella era sicuramente un'area a rischio di conflitto.

In quel periodo solo alcune organizzazioni internazionale avevano colto e sottolineato l'importanza delle iniziative dell'antropologo Anton Cetta, agli inizi del 1990, riprese successivamente dal movimento di Rugova.

Il problema drammatico, sintomatico della cultura che ci attraversa, è che l'occidente ha fatto di tutto per lasciar incancrenire la situazione arrivando poi agli accordi di Dayton, che non prevedono soluzioni per il Kosovo, le critiche di moderatismo a Rugova, lo sviluppo dell'UCK e l'emarginazione dell'ala nonviolenta a Rambouillet.

 

Altre strade possibili: le ragioni della pace!

Dicevano Russel e Einstein nel “Manifesto del 9 luglio 1955, nel quale esortavano a rinunciare alla guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti, pena la distruzione dell'intera umanità “Dobbiamo imparare a pensare in un nuovo modo. Dobbiamo imparare a chiederci, non già quali misure occorre intraprendere per far vincere militarmente il gruppo che preferiamo; perchè nulla di tutto ciò è più possibile. Quel che ci dobbiamo chiedere è: come impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?

Il punto è sviluppare un pensiero altro rispetto alle guerre, partendo anche dai problemi che alcune esperienze nonviolente pongono.

E' necessario però un radicale e profondo cambiamento culturale e politico.

Non esiste una ricetta rivelata, ma un elaborazione di un progetto lungo e articolato nel tempo, spesso complesso, per risolvere i conflitti. E' necessaria quindi ricerca, formazione, investimenti... e sopratutto un governo internazionale che sia credibile, capace anche di utilizzare le forme di polizia internazionale (ma azioni di polizia non militari), ma in un'ottica credibile, non, come spesso accade, con azioni che esprimono solo gli interessi di certi paesi.

Non si può relegare la cultura di pace e la nonviolenza a semplici ideali, icone da mettere in un altare. Cultura di pace e nonviolenza esigono giustizia, trasparenza, abbattimento delle disuguaglianza, verità nell'informazione.

Non si può aderire alle marce della pace, fare i pellegrinaggi a Barbiana, dove don Milani lottava con gli ultimi e poi in parlamento finanziare le missioni militari (perché non sono missioni di pace), rinunciare a ragionare su un sistema altro di difesa e di gestione dei conflitti di pace, ignorando, ad esempio, che per far funzionare un corpo civile di pace, capace di fare interposizione meglio di un apparato militare, è necessario investire risorse e mezzi su quella strada.... risorse e mezzi che vanno tolti alle lobby dei militari.

Ovviamente ciò determina anche un idea diversa di Europa, che tenga conto dei popoli e di quale cultura e politica diversa l'Europa possa essere portatrice.

Una cultura che vada in una direzione opposta a quella finora pratica degli eserciti e degli armamenti, privilegiando la costruzione permanente di corpi civili di pace, che necessitano finanziamenti e azioni di formazione.

Un'idea diversa di Europa che sia coerente con i suoi valori costituenti di solidarietà, internazionalismo, giustizia e pace.

Sicuramente la scelta nonviolenta non è neutrale e non può essere rappresentativa dei poteri forti, anzi esprimerà gli interessi proprio dei soggetti deboli.

Il primo punto, indispensabile, è l'esistenza di un assetto internazionale, organizzato con un sistema di giustizia e di polizia (non militare e di intelligence) che sia credibile e coerente, equo e democratico, e non espressione sempre di parte.

Il secondo punto è la necessità di sottrarre risorse alla struttura e alla ricerca militare spostandole in politiche di riduzione dei conflitti e ampliamento dei diritti e investendole nella creazione di strutture civili capaci di intervenire prontamente alla prima avvisaglia di conflitto.

Ovviamente tutte queste strutture devono essere sotto la guida di una istituzione neutrale riconosciuta come tale.

In tale ottica è ovviamente anche necessario istituire una “forza”, capace di intervenire prontamente all'insorgere di un conflitto, ma si tratta di una forza di pace, che utilizzi strumenti non militari.

Già Gandhi aveva previsto la realizzazione di “Shanti Sena”, ovvero “Esercito di Pace”, e in questi anni numerose ONG hanno sperimentato la realizzazione di interventi nonviolenti nelle aree di conflitto (cfr. Interventi Civili di Pace: http://www.interventicivilidipace.org/wp/).

Il punto è quello non di mettere in atto azioni sporadiche affiancate a quelle principali armate, lasciandole magari semplicemente in gestione ad ONG, bensì quello di affermare una cultura altra che porti a scegliere sempre questo tipo di modalità di approccio al conflitto, rifiutando l'intervento militare.

Si tratta invece di voltare pagina e cominciare a dare forma strutturale ad approcci diversi ai conflitti, non come semplice esperimento occasionale, ma come scelta di un governo mondiale o, quantomeno, di una comunità estesa quale potrebbe essere quella europea.

Una modalità di approccio che preveda le pressioni internazionali, l'interposizione, una cooperazione diversa, anche forme di isolamento internazionale, di non cooperazione... tutto nell'ottica di costruire un diverso sistema di relazioni basato sul rispetto dei diritti umani, giustizia, riduzione delle disuguaglianze, sicurezza...

Una svolta cultura rispetto alla quale devono essere indirizzate le risorse che invece attualmente spendiamo per l'apparato militare e le missioni di guerra.

La stessa nostra esperienza all'interno delle città ci dicono come non è certo con i fortini assediati che garantiamo sicurezza, ma solo con politiche inclusive e di accoglienza.

Non possiamo trasformare un paese o le relazioni internazionali in forme di fortezze assediate, dobbiamo mettere in campo processi cooperativi e di rapporti diversi.