"Roberto ti scrivo perchè ti stimo ma questa volta ti sbagli. I numeri e le immagini mi sembrano chiare e non equivocabili, la logica dei buoni e dei cattivi questa volta regge poco." E’ stato uno dei commenti di dissenso in calce alla lettera di Saviano sul sito di Repubblica. Questo movimento no ci sta a farsi dividere in buoni e cattivi. Saviano - a cui riconosco, come persona e come scrittore, grandi meriti, e l’ho scritto più di una volta - stavolta ha mancato il colpo, e lo ha mancato parecchio. E’ interessante fare entrare in risonanza questa sua presa di posizione con la precedente, da cui personalmente mi sento ancor più distante, sulla sua incondizionata dichiarazione di solidarietà allo Stato di Israele e al suo governo resa pubblica durante la manifestazione organizzata nientedimeno che da Fiamma Nirenstein. Si era dimenticato, nell’elogiare l’avanzata legislazione sui diritti civili di quello Stato, che tale illuminata politica poggia esattamente su un apartheid che lo stesso pratica quotidianamente. E che pratica con un quoziente di violenza che dovrebbe essere inaccettabile per qualsiasi persona che abbia a cuore il senso della parola "democrazia" (ma già lo annotava Blanqui 160 anni fa: "democrazia" è una parola che tutto contiene e nulla vuol dire, una parola-baule diciamo, troppo pieno, dunque un significante vuoto). Perché un intellettuale così impegnato a reclamare la libertà di un popolo condanna con questa virulenza le forme di contestazione violenta che vengono da una generazione che si sente oppressa e senza prospettive, laddove invece accetta e giustifica la violenza immane di una grande macchina statale? Nella camera iperbarica in cui è costretto a vivere, mi pare che Saviano abbia smarrito il senso della realtà, e rovesciato la prospettiva. Non credo, e l’ho già scritto, che questo fosse già inscritto nel suo percorso ab initio (ho trovato e continuo a trovare semplicistica e fuori fuoco l’analisi di Dal Lago). Mi pare piuttosto che su questo Saviano di oggi si scontino gli effetti visibili della produzione di irrealtà della grande macchina mediatica: Saviano, reso icona spettacolare, separato de facto dalla realtà (ciò che lo ha reso quel che è, ché la forza di Gomorra stava proprio nell’addentrarsi nelle pieghe oscure del reale), non può che vivere il reale "di riflesso" - e in questo reale è compreso egli stesso, che tende perciò ad assumere i contorni e gli attributi della sua Immagine, facendosene copia conforme. Detournando Debord (peraltro, anch’egli, tra i feticci culturali di Saviano), potremmo dire che stiamo assistendo al suo "divenire immagine".
Dovremmo perciò lasciarci lo Spettacolo alle spalle, e tornare alla realtà. E la realtà pare essere quella di una piazza che non "si" tiene più. Di un’intera generazione che non si tiene più, che non ci sta a essere incasellata, gestita, indirizzata, disciplinata. La disciplina che gli hanno scritto sui corpi gli sta stretta: perché aprendo gli occhi al mondo si rende conto che è questo mondo ad andargli stretto. Si scuote, allora, quel che si deve scuotere, comprese la fantasmizzazioni rivoluzionarie che le generazioni precedenti vorrebbero proiettargli addosso con le usurate categorie del politico del Novecento. Quando qui siamo, davvero, "oltre il Novecento". Nulla a che fare con gli anni Settanta, dove il movimento aveva una fortissima identità ideologica e una fortissima prospettiva politica. Qui c’è una moltitudine polimorfa, dove il discorso pubblico prende letteralmente corpo a partire da urgenze e istanze esistenziali e da considerazioni materialistiche (gli effetti selvaggi del precariato sui propri fratelli e sorelle, se non quando sui propri genitori), oltre che da un totalitarismo, quello sì, ideologico da cui chi è nato nell’era del berlusconismo e non conosce altra dimensione pubblica si trova soffocato. Siamo in presenza di una generazione che sta forgiando, finalmente, il suo linguaggio nuovo, le sue nuove categorie: etiche, esistenziali, politiche.
Ogni logica binaria, a questa moltitudine, sta stretta. Al di là dei buoni e dei cattivi, ricorda qualcosa? Si contemplano - ed è una contemplazione attiva - differenti modi d’essere e resistere e creare. E’ ciò che chiamo "incompossibilità dei mezzi" (ma certo, anche questo potrebbe essere l’abbaglio di uno che appartiene a un’altra generazione). Si possono e si devono praticare varie forme di lotta, ognuno a suo modo, ognuno secondo la propria posizione, secondo la propria etica (ché l’etica è un fatto di posizione, è una mappa geografica). E quelle forme naturalmente saranno anche incompatibili tra loro, ma non si disconoscono, non si rifiutano e si scomunicano vicendevolmente. In quanto si è consapevoli che si sta guardando nella stessa direzione, e l’importante è intensificare il flusso delle cose.
E allora anche la questione violenza/non violenza non può che essere una questione stantia. Tutta chiusa entro quella logica binaria di un altro tempo. Questi ragazzi capiscono bene che c’è una violenza di sistema che viene spacciata per "innocente", quando invece è il culmine possibile della violenza. E’ l’ideologia della non-violenza planetaria, che occulta il massimo quoziente di violenza mai dispiegato nella storia mondiale. Per essere non-violenti davvero, allora, occorre riconoscere anche la verità di quella violenza che scaturisce ‘naturalmente’ (ovvero, necessariamente) dalla storia. Altrimenti, la non-violenza non è altro che la morale degli schiavi.
E’ per questo che di fronte allo spettacolo ideologico della violenza che, con un singolare rovesciamento di soggetto e predicato, si spaccia per non violenza (e che promette di mantenere il mondo "pacificato"), viene naturale rivendicare la violenza possibile e, nel medesimo movimento, il valore della non violenza: si tratta di togliere ai gesti il velo dell’ideologia, e rivendicarli come puri gesti. (La pura violenza di Benjamin che non è mezzo in vista di un fine, ma ‘medio puro’, violenza che puramente agisce e manifesta: violenza che non rifonda un potere, ma che ne esibisce la finzione). Del resto - e questo anche nel vecchio mondo - la non-violenza non è pacifismo, rimozione del conflitto: piuttosto, essa è gestione del conflitto, ciò che può implicare doverlo far emergere laddove esso venga occultato. E questo mi sembra il caso presente (eternamente presente). Il nazareno, com’è noto, un giorno s’incazzò ed entrò nel tempio a distruggere le proprietà private dei mercanti.
Tutto questo è, semplicemente, "naturale". C’è solo da comprendere (Nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere...). Comprendere la rabbia che monta, segno innocente. Come i fiumi che esondano per la cementificazione, mi si consenta la metafora: in tal caso non si dice che la Terra sbaglia. C’è solo da capire dove abbiamo sbagliato "noi".
[pubblicato sul manifesto il 21/12/2010]