Cominciamo dalle luci. La prima luce venuta dalla riunione di Verona è che il movimento c’è! Lo “zoccolo” duro del pacifismo ha reagito positivamente all’appello. In tempi di assenteismo e astensionismo politico la presenza di 13mila persone è una fatto molto importante. Essi hanno risposto consegnando un patrimonio di esperienze accumulate dal volontarismo di base; ora agli organizzatori possono far conto su una base forte che vuole indirizzarsi verso una politica incisiva.
La seconda luce è che i movimenti del modello di sviluppo verde (cioè personalista e nonviolento) a Verona hanno stretto un’alleanza. Negli anni ’60 e 70 essi erano alleati con i radicali (modello di sviluppo giallo: individualista con tecniche nonviolente); ma poi si sono giustamente separati da essi (che hanno preso una piega incompatibile su tanti temi, droga e guerra per prime). Negli anni ’80 e ’90 essi hanno impostato una propria politica incisiva (campagna per l’obiezione alle spese militari) che li ha fatti crescere autonomamente. Ma poi, ottenuta la legge 230/1998, si sono ghettizzati in una politica chiara (Poca attenzione al SC e sulla attuazione della 230/1998; indecisione sulle iniziative di interposizione nonviolenta alle guerre; fine della politica delle testimonianze? Viva la fine della naja?).
A Verona si è creata un’alleanza strategica con i movimenti politici che appartengono al modello di sviluppo rosso (pacifismo di massa). Con essi i rapporti erano stati poco stretti o anche di opposizione (ad esempio sulla marcia Perugia Assisi); perché questi avevano preferito puntare sull’alleanza con l’ala più disponibile dei pacifisti del modello blu; in particolare, il Prof. Papisca, che ha l’ideologia che la pace si raggiunge attraverso solo i diritti umani e le istituzioni: le Nazioni Unite e lo Stato. Il risultato era la Marcia Perugia Assisi, che prendeva gli slogan del prof. Papisca (“Diritti per tutti”, Riprendiamoci l’ONU”, ecc.) e gli Enti Locali, i sindacati e gli scout di sinistra ci mettevano la massa.
Ma l’organizzatore principale, Flavio Lotti, ha tentato di farsi eleggere deputato e questo non è piaciuto alla base. Inoltre il Prof. Papisca è in pensione. Quindi la vecchia alleanza si è ridimensionata. E’ allora molto significativo che una componente del MDS rosso si sia alleata con i verdi; anche perché ci ha sacrificato una sua festa tradizionale, la festa della Liberazione, dirottando il significato tradizionale di resistenza politica (e armata) a quello nuovo del disarmo e della pace.
In Italia una alleanza rosso-verde c’è già stata in Parlamento negli anni ’90 dentro il partito Verde (che in realtà era soprattutto rosso-verde) e fu molto fruttuosa. Anche oggi può esserlo: dalla base potranno nascere iniziative incisive e dal movimento potranno crescere nuovi leader significativi.
Non so trovare altre luci e debbo passare alle ombre che vedo.
A Verona non tutti gli aventi diritto storico hanno potuto parlare; invece altri, che questo diritto non l’avevano, hanno parlato. Il carattere di manifestazione pre-programmata è stato sottolineato anche da Mao Valpiana che voleva giustificare la chiusura ad es. al “nonviolento storico” Alberto L’Abate. Cioè, ha prevalso il modello del pacifismo di massa, in cui la base compie un atto volontaristico-testimoniale collettivo e poi i “dirigenti” portano avanti delle richieste (di base?), chiedendo alle apposite istituzioni un tavolo di trattative, dove essi gestiscono l’avanzamento di quelle richieste. Iniziare con un atteggiamento che quanto meno è burocratico non promette bene per la conduzione del dopo manifestazione (che tra l’altro è stata freddata da una bordata inconsulta, quasi alla Kossiga, del Presidente della Repubblica contro i pacifisti).
Su che tema si è stretta l’alleanza? Il tema fondamentale non è stato la pace e ancor meno la nonviolenza, ma l’antimilitarismo: il commercio e la corsa alle armi (“La nonviolenza oggi si chiama resistenza [solo?]. La liberazione oggi si chiama disarmo [solo?]”) Per quelli che ricordano gli anni ’80: è come aver unito la marcia Catania-Comiso (che voleva l’eliminazione dei missili in nome della difesa non armata e nonviolenta) con la marcia Milano-Comiso (che chiedeva qualche missile in meno per dare alla politica parlamentare del PCI un suo ruolo nei negoziati col Ministero della Difesa).
In definitiva, si è riproposto solo quel pacifismo che finora ha digerito il movimento operaio: maledizione delle armi, ma senza una proposta politica di costruzione di una difesa alternativa da oggi. Fu la stessa frenata che il movimento dei nonviolenti anti-centrali nucleari subì con la costituzione, sulla base nonviolenta, del Comitato di controllo delle scelte energetiche; il quale come prima politica si rapportò a quella dei sindacati (certo, una politica migliore di quella del PCI, ma sempre limitata; come dimostrò poi il cedimento di Montalto di Castro, che invece prima era stata la roccaforte dei nonviolenti).
Quali obiettivi sono stati proposti a Verona? Obiettivi che sono facilmente criticabili (Già lo ha fatto Gregorio Piccin sul Manifesto del 7/5/2014, p. 7), a incominciare da quello di un disarmo senza alternative. Ma poi: era imminente ed in questi giorni è stato fondato un Istituto Europeo per la Pace (diretto da un italiano). Se ci andranno dei marpioni militari e loro alleati (purché con titoli accademici) non si potrà fare nulla dall’interno dell’Università, perché lì i rapporti di forza sono troppo asimmetrici. A Verona non c’era nulla da dire come movimento? Neanche sulla parabola discendente della nonviolenza negli studi universitari?
Ma soprattutto mi viene da dire che è quasi una vergogna che dopo aver ottenuto, per la prima volta nel mondo, un finanziamento più che consistente per missioni di pace nonviolente (9 milioni in tre anni) dopo sei mesi non si sia trovata una proposta da presentare all’opinione pubblica. Se ora ci anche i soldi e l’autorità dello Stato, che cosa manca allora? Se una riunione di 13.mila persone, specifica per affermare i valori della pace non armata oggi, non sa rispondere alla domanda che da dicembre pesa sui pacifisti italiani, è facile per l’opinione pubblica (e ancor più per i militari) accusare i pacifisti di non avere idee concrete su quello che vogliono fare.
(Ho avanzato una proposta concreta: impegnare i SC.isti che dovrebbero fare questi interventi per lavori di sostegno della base mondiale dell’ONU per il PK che sta a Brindisi. Ma ancora nessuna associazione o movimento l’ha fatta propria; anche se il Min. AA.EE. l’ha presa sul serio).
E noi possiamo pensare che ci sono pericoli di involuzione e di strumentalizzazione. La prima strumentalizzazione da temere è che il movimento per la pace venga ridotto a quello che vuole la sinistra partitica: un movimento collaterale, che ha obiettivi politici a priori subordinati a quelli più generali del partito sulla politica (militare) estera. Certo, anche dentro il collateralismo un movimento nonviolento può ricavare degli avanzamenti (non diciamo vantaggi).
Ma, mi chiedo: può una politica veramente nonviolenta procedere senza la politica della obiezione di coscienza, quella per cui ogni obiettore faceva politica direttamente e dalla base, secondo una trasparenza che dipendeva solo da lui? O non è piuttosto tarpata nelle ali? Come dimenticare che il Serv. Civile Nazionale è già dal 1998 finalizzato alla difesa civile non armata e nonviolenta? Come ignorare che un giovane che voglia essere obiettore alle armi ha come luogo naturale quello del SC volontario? E perché questo giovane non dovrebbe essere riconosciuto come obiettore dallo Stato, e, come lui, perché non tutti gli adulti che non intendono partecipare ad una difesa armata? Come lanciare una campagna per il disarmo e la difesa civile non armata e nonviolenta quando l’Italia ha avuto per prima al mondo una legge su questo tipo di difesa, ma la si è lasciata abrogare senza fiatare? Come si può chiedere una sottoscrizione popolare per istituire un Ministero per la Pace dimenticando che l’Italia è già il primo Paese al mondo che da quindici anni ha una istituzione statale per la difesa alternativa, l’Ufficio Naz. del SC (il quale Servizio, anche per la vigente legge 64/2001, ha come prima finalità il “contribuire alla difesa della patria con mezzi ed azioni non militari”)? Come ignorare che cinque volte è stato nominato come direttore di questa istituzione di difesa alternativa una persona che non ha dato soddisfazione ai nonviolenti? E come dimenticare che per dieci anni ci sono stati anche i finanziamenti (quasi un milione di euro, complessivamente) per iniziare una difesa civile non armata e nonviolenta in Italia, ma nel Comitato ministeriale apposito i rappresentanti civili non hanno saputo o voluto passare ai fatti?
Sono domande pesanti, che alla fine fanno chiedere se la tradizione italiana della nonviolenza (che era la più forte in Europa, costruita da maestri del calibro di Capitini, Lanza del Vasto, Dolci, La Pira, Don Milani, Don Tonino Bello, ecc.) a Verona abbia avuto una continuazione. O se abbia prevalso il modello organizzativo e politico di Libera: grande aggregazione alla base, alla quale però non si danno compiti politici (oltre quello di dare a priori il consenso all’operato di due istituzioni: la magistratura e la polizia), cioè con una concezione passiva della società civile.
Allora, per aumentare le luci su Verona e allontanarne le ombre occorrono altre due luci, da realizzare con due dibattiti aperti: sulle responsabilità politiche dei passati quindici anni e sui contenuti politici da dare all’alleanza rosso-verde che si è iniziata. Questo scritto vuole sollecitare proprio questri due dibattiti.