Tratto da “Notizie minime della
nonviolenza in cammino”, n. 397 del 17 marzo 2008
Pubblicato su "La Repubblica" del 15
marzo 2008, col titolo "La
Cina rivive l'incubo dell'89".
Sulla pacifica protesta dei
monaci tibetani è scattata feroce la repressione cinese: dagli ospedali di
Lhasa giungono notizie di numerosi morti e feriti. La capitale è in stato
d'assedio e sotto coprifuoco, tutti i principali monasteri buddisti della
regione sono circondati da reparti della polizia antisommossa.
È la più grande rivolta popolare
in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del
Partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della
Repubblica popolare. Hu Jintao l'8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge
marziale e a scatenare l'esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i
galloni dell'uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il
massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo.
Sono passati quasi vent'anni ma
il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le
tensioni create dalla politica di "assimilazione forzata". La
fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da
mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e
torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama.
C'è una logica stringente dietro
questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare
illegittima l'invasione dell'armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro
territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l'invasione continua
di immigrati "han" (l'etnia maggioritaria cinese) che sconvolge gli
equilibri della popolazione locale e ne snatura l'identità culturale.
Il precedente della rivolta
birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e
sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un
attaccamento straordinario alla propria religione, e non tollera le violenze
contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna
di avere miglior sorte del popolo birmano. Si affida all'influenza del Dalai
Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese
arretrato e isolato come la
Birmania.
Mentre a Lhasa vige il terrore
poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come
una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di
turisti stranieri. Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani
a scendere in piazza. C'è la speranza che nell'anno delle Olimpiadi, con gli
occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di
ordinare una nuova carneficina.
Per gli occidentali la politica
cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e
moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l'indipendenza e
chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema
in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all'immigrazione dal resto della Cina,
consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e
proteggere l'ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in
materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al
regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino
continua a bollare il Dalai Lama come un "secessionista" con cui è
impossibile dialogare.
La paura che provano i tibetani
è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore
della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l'Europa
occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei
milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è
immane, è difficile resistere alla "sinizzazione". Il regime può
contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla
questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari,
imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il
Tibet è "sempre" appartenuto alla Cina; dietro le velleità di
autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come
nell'Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e
giapponese "amputarono" l'Impero Celeste di pezzi di territorio, da
Hong Kong alla Manciuria.
Nazionalismo cinese, superiorità
demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad
appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di
"coloni", vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno
stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici
turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili
negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l'anima dei luoghi: il Potala
Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni,
invaso da comitive cinesi volgari e arroganti.
Eppure dietro la sicumera di Hu
Jintao traspare il germe di un dubbio.
L'incapacità di aprire un dialogo
col Dalai Lama rivela un'insicurezza. Il Partito comunista cinese non accetta
che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità
alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo
ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi
di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché
è un'autorità spirituale indipendente.
Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di
buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l'idea che
la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile
autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c'è lo scenario Solidarnosc,
proiettato in versione buddista.
Nonostante le sue fobie
totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza
fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è
membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell'Organizzazione del
commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell'Unione europea e
degli Stati Uniti. Ha l'ambizione di essere un attore responsabile nella
governance globale. È indispensabile che l'Occidente eserciti ogni pressione
per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei
Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un
consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie
turbolenze se la Cina
decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.