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Perché non possiamo rassegnarci alle guerre

La pace è sul serio un intervallo appena tra massacro e massacro? E la Storia è un libro scritto solo col sangue, da leggere dalla parte dei migliori, la nostra ovviamente, e comunque infine quella dei vincitori? Ma che cosa accade ora che le guerre non le vince più nessuno e le perdono tutti, di più – in ogni popolo – i più poveri? Continuiamo a scatenarle o a esserne armieri complici – che è quasi lo stesso – “perché così si fa da sempre”? Serve davvero l’elenco? Ucraina, Iraq, Siria, Afghanistan, Georgia, Israele-Palestina, Libia, Yemen, Congo...

Ma soprattutto, il conflitto è realmente destinato a degenerare con regola inesorabile in gioco di potenza in cui gli Imperi tramontano, risorgono e s’impongono in ordinatrice e spietata competizione tra loro? E se tutto ciò è il nostro presente, a che cosa serve, a che cosa serve per davvero, la politica? È questo il suo ruolo? Organizzare l’intendenza degli eserciti schierati? Munire arsenali sempre più letali e sempre più affidati a intelligenze non-umane? Prendere atto dell’ineluttabile e concorrere alla guerra, impresa dai troppi capi e dalle infinite code, alla quale e nella quale non si può evitare di prender parte? E infine: quale cittadinanza attiva nelle nostre società democratiche e nel nostro mondo diseguale sono immaginabili per i partigiani della speranza? Per i portatori sani, cioè, di quel sentimento della politica – e dei concreti valori solidali di fraternità, di sororità e di giustizia che lo ispirano – che accomuna tante e tanti di noi e resta senso essenziale dell’agire nella storia, ovvero direzione verso cui muovere?

Troppe domande, probabilmente. Ma sono quelle di oggi. E sono grato a questo giornale, e al suo direttore, per aver scelto di alimentare un dibattito sulla pace fatta a pezzi e sulla nuova Grande Guerra fatta di pezzi che si stanno saldando tra loro. Un dibattito aperto, lo scorso 29 luglio, da un’incalzante e potente riflessione di Massimo Cacciari (“Il dottor Stranamore è ancora tra noi”) e sviluppato, il primo agosto successivo, con il serrato ragionamento e l’impegno anche politico di Gianni Cuperlo (“Noi e l’utopia storica della pace”). Un dibattito che è parte del discorso anche per me più urgente, che viene sostenuto ad altro e altrettanto alto livello, su queste stesse pagine, dagli incessanti contributi di Domenico Quirico, inviato e analista di straordinaria esperienza e di limpida umanità.
Conosco lo sguardo di questi interlocutori e amici, e lo condivido con libertà. Stile non scontato in tempi ribellicizzati nei quali è diventato stranamente difficile ribellarsi al bellicismo che ha sempre ragioni, ma mai – alla prova dei fatti – ragione. In Italia, magari, ti liquidano come strano e un po’ troppo “complessista”, perché la guerra è invece semplice: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. In Russia, se critichi la guerra e il ritorno alla “politica di guerra”, ti tolgono soldi, lavoro, aria e, se insisti, ti sbattono in galera con condanne schiaccianti. Salvo poi rilasciarti spettacolarmente dopo un discreto negoziato tra Mosca, Washington e Berlino – ma allora si può, e si sa ancora, negoziare! – come è accaduto pochi giorni fa a Oleg Orlov, premio Nobel per la Pace 2022 (con “Memorial”), ai politici Ilya Yashin e Vladimir Kara-Murza e a un’altra dozzina di persone (anche americane), giornalisti e intellettuali tra i quali spicca Alexandra “Sacha” Skochilenko, giovane grande donna troppo poco citata (con sua madre Nadezhda, che in russo vuol dire proprio “speranza”, e con la sua amata Sonia), ma capace di parlare – da scrittrice, cantautrice e attivista pacifista – come quasi nessuno ai coetanei cresciuti sotto il regime di Vladimir Putin.

Penso che la politica che ci serve debba avere questo sguardo e ritrovare parole mobilitanti e azioni conseguenti. L’ho scritto per anni. E di più negli ultimi, nei quali mi è sembrato che si fossero perse, prima ancora delle certezze sui doveri dei poteri costituiti e dei cittadini-elettori-lettori, prima ancora della capacità di resistenza ai confini dell’orrore, quelle formidabili obiezioni alla logica della guerra che un lessico comune, anche tra noi cronisti, conteneva ormai quasi strutturalmente. Verrebbe da chiamarle “anticorpi” quelle obiezioni, cercando di star dietro a Cacciari e alla sua mobilitante descrizione dei «virus locali» che congiurano alla Pandemia bellica. E ci sono ancora, quelle obiezioni, specialmente, ma non esclusivamente, nell’area culturale e politica progressista (che è laica e credente), radicate a partire dalle consapevolezze accumulate generazione dopo generazione e specialmente, in modo che abbiano osato pensare definitivo, nel corso del Novecento. Ma vengono etichettate, più che sempre, come “connivenza col nemico”.

Anch’io, lo ammetto, mi sono sentito quasi in un mondo rovesciato. Dove a coloro che, spes contra spem, rivendicano il primato del dialogo e obiettano all’arruolamento e allo spiegamento d’armi come replica alla pre-potenza di chiunque, anche a quella del nuovo zar nero Putin, non viene risparmiata la supponenza riservata ai «cafoni» della Fontamara di Ignazio Silone: «Cosa ne sai tu? Cosa ne sai tu se siamo in pace o in guerra? ». Gente alla quale si può elargire la neolingua (e l’antilogica) preconizzata da George Orwell: «La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» (due socialisti, l’uomo di pace Silone e l’umanista visionario e antipacifista Orwell). Ci ho pensato e ripensato, davanti a slogan e a titoli a tutta pagina, come uno, indimenticato, che gridava: «I missili portano la pace». Ditelo ai morti, e ai politici che ne portano responsabilità. Meccanismi schiacciatutto assai noti e documentati, con spirito polemico prezioso come la sua straordinaria scienza storica, già da Marc Bloch che nel 1921, mise in fila i fatti e i misfatti informativi e propagandistici che tra il 1914 e il 1915, contribuirono a generare e radicare nella carne e nelle coscienze la prima guerra mondiale.

Torno alle domande dell’incipit, suscitate dalla lettura di Cacciari e Cuperlo. Sono ingombranti, eppure non pochi hanno ritenuto di poterle scartare. Sarebbero superflue o ingenue. E, di conseguenza, da scartare sarebbe anche la ricerca delle risposte, non compito principale della politica bensì roba da “pacifinti”. Come se la Guerra, che non è la semplice somma delle decine e decine di conflitti armati in corso, potesse finire bene o comunque finire. Anche senza risalire più indietro, è certamente dal 1991 – anno della dissoluzione dell’Urss, dell’inizio delle lotte e delle stragi inter-islamiche d’Algeria e, a partire dall’invasione del Kuwait, della prima guerra irachena – che i conflitti bellici non conoscono conclusione e vittoria, generano mostri e ulteriori tragedie, che stentiamo a vedere e a riconoscere. Un esito nefasto che niente e nessuno scongiura, neanche l’incombente o denunciata presenza della Bomba e di troppi altri strumenti dell’apocalisse affinati dalla Tecnoscienza. Anzi le armi di distruzione di massa non sono più «deterrente», è fondato il dubbio di Cacciari, ma motivo di guerra, alibi reale oppure smaccatamente falso, come il generale e poi segretario di Stato americano, Colin Powell, seppe testimoniare facendo pubblica ammenda e rinunciando a una politica fucina di pretesti bellici. Ma se mai si arrivasse allo scontro finale con le armi nucleari, provo a star dietro alle argomentazioni di chi mi ha preceduto, avremmo la fulminea e irrecuperabile dimostrazione che con il sangue non si scrive la Storia, ma si materializza l’Antistoria, ovvero la distruzione dell’umanità.

Ecco perché non ci si può rassegnare al declassamento disperante e disperato – e, dunque, insensato – dell’azione politica a “politica di guerra” e all’orchestrazione di una “economia di guerra” (cioè al deragliamento delle risorse lontano da ciò che serve la vita della gente). Il dubbio atroce è che la guerra venga gabellata come strumento per ridare peso almeno apparentemente decisivo alla politica rispetto agli «interessi multinazionali non universali» – così papa Francesco, nel 2014, nel suo Discorso al Parlamento Europeo – che esercitano concreto potere e dominano la scena di un mondo trasformato in globalissimo mercato liberal-liberista (s)governato, annota Cuperlo, da «una teoria economica tradotta in dottrina morale». Una morale senza valori non commerciabili.

L’ho fatta lunga, e mi fermo qui. Ma se oggi sono deputato europeo e ho un diverso luogo e un diverso modo per la “fatica del quotidiano” che è stato anche il mio mestiere per più di quarant’anni, è perché penso che c’è da lavorare a una risposta politica e non bellica al disordine del mondo e al conflitto, che non è eliminabile nella vita degli uomini e delle donne e nell’ambiente naturale e sociale di cui siamo parte. L’Europa comunitaria, nata dalla rinuncia alla guerra (noi italiani dovremmo saper dire “ripudio”), può e deve e avere un ruolo esemplare nel conciliare la Politica, come suggerisce Cuperlo, col ricominciamento del Pensiero e la riumanizzazione della Tecnica. Per alcuni versi lo sta già avendo, ma non basta. E la tentazione della euro-intendenza dei carri da guerra altrui è purtroppo forte.

Eppure il ruolo dell’Europa in nessun modo è quello della “fortezza”. Che in questo caso non è una virtù, ma il recinto dei disperati. Dove ci si predispone, come cantava Bertold Brecht nell’Antigone, alla «battaglia» che «però genera voglia di battaglia e odora di sangue, il proprio e l’altrui, e ubriaca». Il suo ruolo, invece, è la concreta speranza. Secondo la lezione di un altro Bloch, grande europeo e cittadino del mondo, quell’Ernest Bloch che ha reso sufficientemente chiaro anche a me, cristiano, che Utopia

non è l’isola che non c’è, è l’isola che non c’è ancora, la patria delle donne e degli uomini che sanno vedere le potenzialità e mobilitare le energie del presente. Cioè abitare la Storia. Questa è politica, e questo – insisto e insisterò – è lo spazio dell’Europa che nel vecchio-nuovo tempo degli Imperi è sulla scena del mondo è l’unica potenza plurale e non imperiale. Uno spazio reale la politica capace di pace, e non un interstizio, un intervallo appena tra massacro e massacro.

Fonte: La Stampa del 7 luglio 2024

https://www.lastampa.it/editoriali/lettere-e-idee/2024/08/07/news/perche_non_possiamo_rassegnarci_alle_guerre-14537781/