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Periferie al Centro

A cosa servono le città, perché le hanno inventate? Perché noi ci ostiniamo a viverci e a volte ad amarle, nonostante non manchi un anno, un mese, un giorno, in cui qualcuno riesca a renderle sempre un po' più brutte?

Le città, nel loro nascere, dettero un senso nuovo alla possibilità delle persone di stare insieme. Liberarono la solidarietà dalla dittatura dei rapporti di sangue. Dissero, le città, che si poteva convivere e utilizzare degli spazi comuni anche senza essere parenti. Ruppero il senso arcaico della famiglia o forse semplicemente lo arricchirono.

Le città furono un atto di unione, quell'unione che, si diceva e si dice ancora, “fa la forza”.

In quell'idea di città ogni spazio aveva un suo senso profondo. Se non aveva senso, quello spazio semplicemente non esisteva. Se esisteva, un senso lo aveva.

Non esistevano le periferie o meglio, anche le periferie avevano senso, erano centro, il centro della vita di chi abitava quello spazio.

Ma dire che una periferia ha un suo significato, vuol dire ammettere che sono tante le logiche che la attraversano.

La periferia ha senso innanzitutto se consente la vita comune delle persone. Se è capace di rompere la solitudine. La periferia ha senso se in essa, l'unione fa la forza.

La periferia ha senso se un senso lo trova l'occhio di un bambino. Se consente giochi, sorrisi, una corsa matta e un respiro con un filo d'erba in bocca.

Se un adolescente trova un terreno e un appiglio alle fragilità che scopre ogni giorno. Se è rione, quartiere, paese, comunità. Se non è un bordo periferico sospeso sul nulla, ma uno spazio di apertura verso un altrove altrettanto vivo.

La periferia ha senso se ha un centro attorno a cui danzare.

La perdita di senso delle città è emersa come una malattia incurabile nel momento in cui l'unica razionalità costruttiva è stata quella economica. Quando lo spazio è diventato rendita per pochi e povertà indebitata per tanti. I milioni a metro quadro. E poi le migliaia di euro. Sempre troppe per tanti di noi.

La periferia ha seguito questa malattia quando il centro della vita delle città è passato alle grandi superfici commerciali e alle strade di asfalto dedicate allo spostamento veloce… più o meno veloce… delle automobili.

La periferia ha perso il suo senso quando ha smesso di cercarlo. Quando la voce di un bambino ha smesso di parlare, quando ha perso di rilevanza la possibilità di andare da solo a scuola a piedi a 7 anni. Come facevamo noi.

Nessuno se ne accorto e chi se ne accorto non ha avuto voce. O come un bambino nessuno lo ha ascoltato.

Queste periferie non hanno avuto altro dio al di fuori della rendita di chi le ha costruite. Un dio calcolatore e razionale, come un cinghiale laureato in economia e commercio.

Tutte le logiche che avevano fatto belle le città sono scomparse. E' scomparsa la bellezza e il suo sapore difeso da chi ci abita, il sapere del filosofo, del sociologo, dell'artigiano, e delle comunità operaie.

E' scomparso quel pezzo di popolo che alimentava quello spazio, popolo chiuso in un ipermercato o dentro l'auto per andare e tornare senza sapere bene dove. O perché.

Sono scomparsi gli spazi aperti e i bambini che lì abitavano.

Un pezzo di prato e un po' di musica: basta poco per essere felici.

Parlare di città non è solo materia di esperti, di urbanisti o di politici.

Parlare di città è materia di tutti, di tutti coloro che cercano un senso da costruire insieme.

Lo abbiamo detto e ci crediamo ancora. Periferie al centro è l'idea che nessuno spazio, nessun uomo, nessuna donna debbano mai rimanere fuori.

La nostra piazza centrale è il cerchio delle nostre danze in questi spazi di periferia. Se questi spazi possono rivivere per una sera, possono rivivere ogni giorno.