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"Meglio un’Europa con meno Stati e più solidarietà", intervista a Cohn-Bendit

«L’Europa sta male. Ma tutti i problemi che abbiamo non troveranno soluzioni senza l’Europa». Per anni co-presidente dei Verdi al Parlamento di Strasburgo, Daniel Cohn-Bendit, oggi settantenne, si dichiara «profondamente europeo». Figlio di ebrei tedeschi rifugiati a Montauban nel ’33, diventato cittadino francese l’estate scorsa, l’ex leader del Maggio ’68 parigino non crede alla fine dell’Ue. Ma di questa «policrisi» (migranti, economica, rischio di Brexit..), dice «L’Europa non uscirà come ci è entrata. l’Europa sopravviverà al 2016 ma non si sa in quale stato. La crisi greca aveva già messo la coalizione europea alla prova, la crisi dei profughi ancora di più. Ci sarà un’Europa dopo la crisi ma sarà un’altra Europa».

Però tutte queste crisi non danno la sensazione di una tempesta perfetta?

«Si arriva oggi alla fine di un ciclo, quella dell’idea di una federazione di Stati nazione. Non funziona più. Un sistema che sulle questioni fondamentali si basa sul principio dell’unanimità e sulla somma di sovranità nazionali rischia uno stallo permanente. La crisi dei profughi non fa che dimostrarlo. La Commissione è impotente ma non è colpa sua. È la colpa degli Stati. Quando si dice che l’Europa non funziona, bisogna avere presente che è l’Europa delle nazioni che non funziona».

Ma non è solo il funzionamento dell’Europa che è in crisi. La vicenda dei profughi dimostra che sono in crisi i valori fondanti dell’Unione.

«Nella Costruzione europea c’è sempre stato un imbroglio di fondo. Prendiamo l’esempio della politica migratoria. Tutti dicono che ci vuole una politica di asilo comune e da lì si approvano i vari trattati di Dublino. Così si afferma il principio di frontiere comuni legate a Schengen e la libertà di circolazione. Ma l’imbroglio è che le frontiere comuni sono solo sulla carta. In realtà ognuno rimane responsabile delle proprie frontiere e dunque dei profughi che arrivano. È un controsenso. Se abbiamo delle frontiere comuni, per forza, si pone la questione della sovranità europea su queste frontiere comuni. Dal momento in cui ci laviamo le mani dei profughi dicendo agli italiani, ai greci o agli spagnoli “sbrigatevela da soli” si ottiene una rottura intellettuale dell’idea di solidarietà. Oggi il problema è semplice: nessuno Stato da solo è in grado di risolvere il problema dei profughi. Si pone dunque un quesito: chi vuole rispondere collettivamente a questo problema? Il governo polacco come quello ungherese vogliono beneficiare della ripartizione dei finanziamenti europei ma nello stesso tempo dicono che non vogliono sapere nulla di tutto il resto e in particolare dell’accoglienza dei profughi. Non può continuare così. La rottura ormai è chiara: o i Paesi europei prendono coscienza della responsabilità comune o si andrà verso una ridefinizione dell’Europa. Forse ci ritroveremo con un’Europa con meno Stati membri e il resto sarà solo un mercato comune».

Siamo costretti ad entrare in un processo storico di ridefinizione dell’Europa. Attraverso la crisi dei migranti è riaffiorata la frontiera Est-Ovest?

«Non credo. La Danimarca, la Gran Bretagna, la Finlandia non sono all’Est. La crisi dei migranti è molto più vasta e grave. Oggi si lascia la crisi dei migranti a soli tre Paesi. Due di loro, la Svezia e l’Austria hanno da poco gettato la spugna dopo aver fatto tanti sforzi. Rimane solo la Germania. Si può dire che Berlino paga oggi gli errori del passato come quando il governo italiano aveva chiesto una ripartizione dei profughi che arrivavano a Lampedusa. La Germania, come la Francia e gli altri, si era girata dall’altra parte dicendo a Roma: è il vostro problema, rispettate Dublino. Anche se ciò che ha fatto Berlino per i profughi negli ultimi mesi è straordinario, bisogna dire alla Germania che è co-responsabile della situazione attuale e di questo processo di de-solidarizzazione».

Si è imbrogliato anche sulla politica economica, finanziaria e bancaria?

«Certo. Prova ne è che oggi pure i governatori della Banca di Francia e della Bundesbank dicono che c’è bisogno di un ministro del Tesoro comune. Ormai bisogna smettere di imbrogliare, ci vuole un Tesoro europeo e una politica di investimenti comuni. Bisogna ridefinire un equilibrio nella politica economica e finanziaria tra la responsabilità di fronte ai deficit e la necessità di rilanciare l’economia in tutta l’Europa. Però oggi siamo in una situazione nuova, storica: la Germania ha bisogno dell’aiuto degli europei. Fino alla crisi greca, erano gli altri che avevano bisogno di Berlino. In questo contesto ci vuole un scatto di Renzi, di Hollande, del prossimo capo di governo spagnolo e dei portoghesi. Devono prendere l’iniziativa in nome di tutta l’Europa e dire “sosteniamo la Germania con un sforzo sostanziale per sollevarla dell’arrivo dei migranti e in cambio la Germania partecipa alla ridefinizione della politica economica e finanziare dell’Europa”, il tutto gestito della Commissione. Bisogno riaprire il dibattito sugli eurobonds e sugli investimenti per uscire da una politica di austerità unilaterale».

Non è la direzione invocata da Matteo Renzi quando dice che il problema non sono le regole europee ma la politica economica scelta?

«Renzi come Valls non dicono cose sbagliate, ma la politica dei pugni sul tavolo è sbagliata. Non basta dire che la Merkel non è gentile, bisogna capire la situazione. La scelta della Germania di accogliere i profughi è esemplare, ma è anche una debolezza. E quando qualcuno è debole ha bisogno di solidarietà. Non è alzando la voce che si aiuta la Merkel a organizzare le cose diversamente in Europa e a riorientare la politica economica e finanziaria».

Cosa manca di più oggi in Europa, la fiducia tra Paesi, una visione, una leadership?

«Ciò che manca è un idea europea. Ognuno difende il suo piccolo territorio partendo dai suoi problemi. Bisogna uscire dalle visioni politiche nazionali. Renzi dovrebbe vedere Hollande e chiedere cosa possiamo proporre alla Germania. Poi da lì, coinvolgere cinque o sei Paesi del nucleo originario per immaginare le condizioni di un rilancio pratico dell’Europa».

La disaffezione dei cittadini europei verso l’Europa risale a ben prima della crisi dei migranti.

«La disaffezione proviene dal fatto che l’Europa non è all’altezza delle attese dei cittadini. Dunque si percepisce un’Europa incapace di rispondere alla crisi. Si mette sotto accusa l’Europa e i cittadini pensano: staremmo meglio se fossimo solo in Italia, in Francia ecc. È un abbaglio. Se le conseguenze non fossero così terribili, direi agli elettori italiani: “Provate! Date il potere assoluto a Beppe Grillo e fate uscire l’Italia dall’Europa e vedrete il prezzo che pagherete”. Però sarebbe drammatico per il Paese. La cosa vera è che questa Europa che funziona attorno a 28 capi di Stato è impotente. Questo i cittadini lo avvertono. Dico sempre: tutte le critiche che fate all’Europa sono giuste, e la realtà è ancora peggio. Però non uscirete dalla crisi senza l’Europa. Un ritorno alle nazioni sarebbe una catastrofe».

Una Brexit sarebbe una catastrofe o un elemento di chiarimento?

«La paura è cattiva consigliera. Porta a correre dietro la Gran Bretagna e per questo ad accettare un’Europa al ribasso come propone Cameron. In realtà se la Gran Bretagna dovesse uscire dell’Europa, la City non sarebbe più il luogo della finanza europea. Quindici giorni dopo l’uscita dall’Ue, la Scozia chiederebbe l’ingresso nell’Ue e l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Oggi bisogna creare una dinamica con un orizzonte di cinque sei anni per mettere sul tavolo una Costituzione federale europea. Dopodiché rimarrà dentro chi vuole. Non bisogna avere paura di andare in questa direzione. Già nella crisi delle banche siamo andati nella direzione di una federalizzazione del sistema. Non si può continuare con dei capi di governo che dicono solo “voglio, voglio, voglio”. Dopo gli attentati di Parigi si sono visti i limiti dei sistemi di coordinamento sia dei servizi sia delle polizie. La realtà è che di fronte all’internazionalizzazione del terrorismo ci vorrebbero una polizia comune, tipo Fbi, e un procuratore europeo».

Si può incolpare la Germania dei problemi dell’Europa?

«La realtà è che si dà la colpa alla Germania perché gli altri sono dei nani politici. Se la Germania è forte ed egemonica in Europa è solo perché gli altri non sono capaci di proporre qualcosa che la obbligherebbe a condividere il potere politico. Ma per la prima volta da anni, la Germania oggi si trova in una situazione di bisogno. E allora dico, avanti ragazzi, Hollande, Renzi, andate avanti!».

La soluzione è un Europa a due velocità?

«L’Europa deve ridefinirsi con un federalizzazione di alcuni Stati. Quelli che non vorranno partecipare faranno solo parte di un mercato comune attraverso accordi privilegiati senza avere voce in capitolo sul piano politico. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. La federalizzazione deve portare a un vero governo europeo rappresentato dalla Commissione. Questo governo sarebbe controllato da due Camere, il Parlamento europeo e una Camera federale dove siederanno i governi europei. Per questo occorrerà rivedere i trattati».

Il Trattato costituzionale del 2005 fu bocciato dai francesi e dagli olandesi. Come pensare che un tale progetto di riforma sia accettato dai cittadini?

«Non dico che sia facile però bisogno sapere quello che si vuole. Alla fine bisognerà arrivare ad un referendum europeo per una nuova Costituzione europea. Questa Costituzione sarà accettata se una maggioranza di europei e di Stati europei la voteranno. Quelli che diranno no avranno la scelta tra uscire o accettare di rimanere nella nuova Europa. Di sicuro non si può continuare così».

Eric Jozsef

Fonte: La Stampa del 15.02.2016