Immediato outing iniziale: non entrerò nel merito della drammatica vicenda che in questi giorni sta scuotendo il territorio dove vivo, non una sola parola leggerà chi avrà la pazienza e il tempo di arrivare fino in fondo di specifico. E’ un dramma che mi suscita, nonostante ormai siano passati diversi giorni, sentimenti e sensazioni anche contrastanti tra loro. Ed è una vicenda così tragica, lacerante, dolorosa che si può tentare di entrare sulle punte dei piedi più leggere, ma si rischia di essere come elefanti in una cristalleria.
In questi giorni moltissimi hanno scoperto l’esistenza dell’odio, di campagne specifiche intrise di odio e dei peggiori istinti umani. Si, esistono e sono tra noi. Accanto, e non poteva essere altrimenti, come il più classico dei cliché, alla litania sui social, su questi strumenti che realizzerebbero i peggior veleni di questa società. Come possano i social costruire, essendo solo strumenti, è un mistero che probabilmente tale resterà per i millenni. Nel leggere questi fiumi di inchiostro, nell’ascoltare interviste su interviste, sono alcuni giorni che mi ronzano in testa e non mi abbandonano alcune parole di Pier Paolo Pasolini. Come un macigno nell’animo, come un peso che opprime il cuore.
L’articolo pubblicato su Vie Nuove del 6 settembre 1962 si concluse con una durissima invettiva contro una giornalista, autrice di un’intervista pubblicata poche settimane prima – scrisse Pasolini - che era “quanto di più offensivo si potesse scrivere nei miei riguardi” perché “scritto non dal solito imbecille che mi detesta in nome dei suoi padroni reali o immaginari, ma da una persona educata, civile, a un livello giornalistico buono”. “Che vi vengano figli fascisti - questa la nuova maledizione - figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio”.
Odio, vendetta, violenza. Condannare gli altri è facile, è facilissimo, ancor di più aggiungendosi alla moda e alla massa del momento. Ma proviamo un attimo a soffermarci su quanto di più lineare e banale accompagna le nostre giornate: il linguaggio utilizzato. Quali sono alcune delle parole considerate insulti, utilizzate in segno di disprezzo o comunque con connotati negativi e di condanna (nonostante in italiano hanno ben altro significato), ogni giorno? Malato, handicappato, mongoloide, down, storpio, poveraccio, sognatore, utopista, buonista, obeso, ciccione, negro, ebreo, maomao, romeno, zingaro, puttana, troia, zoccola, albanese, marocchino, africa, napoletano, profugo, immigrato, straccione, frocio, lesbica, gaio, ricchione, diverso, disagiato, anormale, nano, tappo, debole, femminuccia. E l’elenco potrebbe ancora continuare. E’ un elenco che fa paura, toglie il fiato, terrorizza. Sono macigni scagliati quotidianamente nei rapporti umani. L’uso di ognuna di queste parole è intrisa di intolleranza e disprezzo, espressione dei più beceri istinti. Sono macigni scagliati contro l’altro, nei rapporti personali e sociali. In una parola odio. Quante volte sentiamo dire “ci vuole la pena di morte?” “bisogna farli fuori ucciderli” “se capitasse, se dipendesse da me, se fosse per me, sparerei a tutti”? E da lì si arriva ad esultare per stragi di persone, a negare umanità ad altri perché sono lontani, perché li consideriamo diversi e quindi inferiori… In quante “tiepide case” la sera urlano tribune cariche di odio, menzogne, bufale e mistificazioni, dove non si fa altro che propagandare guerre sociali, cacce all’uomo e simili? E, alla fine, nell’indifferenza (o nell’approvazione) di tanti qualcuno prende le parole alla lettera, concretizza il pensiero seminato nel tessuto sociale. Le cronache nei decenni, spesso in piccoli trafiletti delle pagine interne (perché non interessano, perché il chissenefrega domina), riportano aggressioni, discriminazioni, pestaggi, agguati contro coloro che al disprezzo e all’odio sociale sono additati. Sfociando anche in veri e propri omicidi (o andandoci disumanamente vicini). O in suicidi di chi non è più riuscito a fuggire da veri e propri tribunali sociali quotidiani. Lo denuncia anche la lettera d’addio del precario della vita Michele. Ha cercato di ribellarsi, ha gridato contro una società che schiaccia il pensiero, omologa, dove trionfano clan, egoismi sempre pronti a sacrificare l’altro (costi quel che costi) per il proprio ego, apparenze, mentre operano vere e proprie guerre sociali e civili quotidiane. Non si sente il rumore dei cannoni e delle baionette. Ma forse fa ancora più male. Il dolore degli altri, parafrasando Dé Andre, non soltanto vien considerato meno di un dolore a metà, ma si può arrivare a provare piacere, a sentirsi in diritto di provocarlo, diventa occasione per affermare il proprio ego, per far trionfare i propri interessi, per abbandonare, lasciare indietro, per scavalcare. In quante case si sono mai letti, e fanno bella mostra di sé, i libri di Tiziano Terzani, Il Piccolo Principe o il Diario di Etty Hillesum? Come è possibile che tante volte sembra quasi un dovere sociale giudicare l’altro, scagliare vere e proprie pietre contro qualsiasi difficoltà, non perfezione, magari anche solo veniali errori? E perché appare difficile (ma poi “chi lo fa fare?” “chissenefrega” e simili trionfano spesso) seminare gentilezza a caso, interessarsi ai pesi altrui senza alcun ritorno, solo perché si vuol condividere, si vuol sentire l’altro parte di sé? Perché sono più diffusi cazzotti e calci (metaforici e meno) che caldi abbracci? Perché appare “dovere sociale” perseguire anche i più meschini interessi personali, farsi guidare da calcoli e apparenze più materiali possibili, e si condanna la ricerca della poesia e del magico incanto?
E chi prova a ribellarsi, chi rifiuta questo modello, chi non accetta di marcire in un (finto) “benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo” viene giudicato, condannato, subisce vere e proprie persecuzioni costretto a pagare prezzi altissimi. Fino ad una vera e propria morte sociale. Michele non si è tolto la vita, non si è suicidato. Michele è stato ucciso, è stato suicidato. Michele non era “un poverino da aiutare”, “un malato da curare e psicanalizzare”. Michele era una persona che aveva diritto di essere rispettato e di vivere. Libero e nella sua personalità, prezioso alla società in quanto persona e non perché perfetto prototipo di un bantustan sociale. E le sue parole sono l’ultimo estremo atto di denuncia, dovrebbero lacerare nel profondo, far sentire una sofferenza che toglie il fiato, far riflettere. Pasolini svela quanto di più lineare e semplice la storia dimostri: non esiste il cattivo alieno alla società, non esiste il malvagio che devasta la buona società. Il male, come rivelò già Hannah Arendt, è banale, è frutto dell’azione di persone normali, di brave persone della società bene. Il treno per Auschwitz, i machete ruandesi, sono ad un passo, sono sempre pronti ad entrare in azione.
Rita Atria concluse il suo tema di maturità scrivendo “forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”. Parole quanto mai attuali e che, mai come oggi, dovrebbero chiamare ognuno di noi. Perché nel momento in cui viene impedito di sognare, considerato inutile, quando i più alti ideali umani come la giustizia vengono piegati e trasfigurati, anche se ci crede assolti, anche se si pensa “non mi interessa, non è roba mia” dovremmo essere tutti coinvolti …
Alessio Di Florio