L’Aquila, 365 giorni dopo il sisma del 6 aprile. Le case provvisorie, quelle che noi aquilani chiamiamo “le case di Berlusconi” ci sono, la città, invece, ancora no. E gli aquilani, nonostante il governo parli di “modello L’Aquila” non sono tutti contenti. Grati sì, perché il tetto viene prima di tutto, soddisfatti, invece, certamente no.
Per dimostrare l’immensità del fenomeno che ci ha colpito possiamo fornire alcuni significativi numeri:
Già a quarantotto ore dal sisma la popolazione assistita era di 27.772 persone di cui 17.772 ospitate in tendopoli. Dopo qualche giorno si è raggiunto il picco massimo di 67.459 persone assistite di cui 35.690 in tendopoli e 31.769 in hotel. A 48 ore dal sisma erano già state allestite 30 tendopoli con 2.962 tende, 24 cucine da campo e 13 presidi sanitari. Dopo qualche giorno si è raggiunto il picco massimo di 171 tendopoli con 5.957 tende, 107 cucine da campo e quarantasette presidi sanitari.
Fino a marzo 2010 sono state effettuate 80.000 sopralluoghi di verifica di agibilità con il 32,1% di edifici privati totalmente inagibili, 21,2% di edifici pubblici e 53,7% del patrimonio culturale
Attualmente, ad un anno dal sisma risultano ancora 1.850 negli hotel sulla costa, 2.455 negli hotel della Provincia dell’Aquila, 622 negli appartamenti del G8, 145 nella caserma Campomizzi, 396 nei 142 appartamenti messi a dispozione dalla Protezione Civile, 1.945 con affitti agevolati, 27.500 con il contributo di autonoma sistemazione.
Circa 15.000 persone vivono nei nuovi insediamenti (diciannove aree diverse) distribuite su tutto il territorio nelle periferie. Circa 27.500 sono in sistemazione autonoma ovvero hanno trovato un alloggio per proprio conto spesso c/o casa di amici e parenti. Circa 4.600 sono c/o gli alberghi della costa adriatica e dell’interno della provincia.
Le case provvisorie sono palazzine di due piani, costruite su piastre sorrette da piloni elastici. Il concetto è quello delle palafitte e gli esperti assicurano che resisteranno a qualsiasi scossa. Costruite in diciannove aree diverse, hanno garantito a circa15.000 persone di passare un inverno al caldo e senza paure. Ma gli aquilani, adesso, vogliono riprendersi la loro città.
La sensazione nostra e dei nostri assistiti e di persone “sradicate” e di un bisogno primario, che con il passare dei giorni si fa sempre più urgente: quello di tornare a casa.
Ci manca molto la quotidianità, i luoghi di incontro, tutto è un luogo non luogo. Mancano i punti di riferimento. C’è da ricostruire tutto il tessuto economico e sociale. Prima del sisma il centro storico della città era molto vivo e vissuto, erano presenti molti locali e negozi con oltre 1.500 attività ed oltre 5.000 addetti. Questa zona, ancora oggi, ad un anno dal sisma, è considerata “zona rossa”
Per oltre tre Km quadrati la città è completamente chiusa, all’interno di questa zona non c’è più vita, non si sente più alcun suono o rumore, ci sono solo macerie, palazzi distrutti ed un silenzio spettrale. Mi chiedo che fine hanno fatto i nostri ragazzi che prima si vedevano in centro, lungo il corso, nelle piazze, nei vicoli? Forse sono dispersi in una delle new town o in qualche albergo o in qualche abitazione di fortuna trovata nei paesi circostanti. Il loro problema è che non riescono più ad incontrarsi, a vedersi, a socializzare con gli amici di un tempo.
Con notevoli sforzi sono riusciti a tornare a scuola ma, finite le ore di lezione, sono costretti a salire su un autobus e fare oltre due ore di viaggio per raggiungere gli alberghi dove sono ospitati o i paesi ove hanno trovato sistemazione. Per quelli più “fortunati” che vivono nelle case messe a disposizione della Protezione Civile, il viaggio è più breve ma anche lì cosa fanno dopo la scuola? Sono stati trapiantati in un ambiente nuovo, con persone che non hanno mai visto, con la totale assenza di luoghi ove potersi incontrare, giocare, socializzare. La giusta priorità della ricostruzione delle abitazioni non ha consentito la contemporanea creazione di spazi per la vita sociale, di parchi giochi e attrezzature sportive. Gli impianti sportivi preesistenti sono stati utilizzati dalla protezione civile come campi di accoglienza e quindi totalmente impraticabili.
Dopo l’evento sismico molti di questi ragazzi hanno iniziato ad avere dei problemi psicologici in quanto non hanno più una vita normale, sono sbandati, non hanno più punti di riferimento, non hanno più sicurezze, certezze. La casa che consideravano il luogo per loro più sicuro si è improvvisamente trasformata in una trappola mortale.
La signora Gianna, una nostra assistita, è una di quelle che vive nel complesso di Bazzano.
Prima viveva in una casa popolare, adesso classificata “E”, ovvero, totalmente inagibile.
La signora, che di lavoro fa la parrucchiera (anche se il suo negozio, in centro, è andato completamente distrutto), spiega che per un periodo ha vissuto in albergo, una sistemazione dove sono ancora i suoi genitori. Il tetto, almeno ce l’ha e quindi non si lamenta ma le cose non sono così rosee come vengono raccontate. La signora Gianna non paga l’affitto, ma non si sa fino a quando. Ci sono ancora scosse, quasi tutti i giorni: si sentono tanto perché la casa è fatta apposta per oscillare e non crollare. Per carità di Dio: ho due bagni, gli arredi sono più che dignitosi, c’è perfino il videocitofono. Ma non sono a casa mia. Il governo e la tv hanno dato un’immagine di efficienza e di rapidità. Ma la gente non la percepisce così. Forse hanno voluto fare troppo in fretta, forse era meglio darci una sistemazione più economica e provvisoria e cominciare a ricostruire le case danneggiate. Chi abitava in centro dovrà restare qui almeno dieci anni».
Analogo il racconto di un’altra aclista ospite delle nuove case provvisorie nella periferia nord, Maddalena: «Ringraziando Iddio stiamo bene, però… Per carità, noi ringraziamo il governo. Ma vogliamo tornare a casa. Abbiamo l’impressione che i lavori siano fermi».
Aggiunge “in queste new town non ci si ritrova. E non è solo perché mancano i negozi e per ogni cosa occorre prendere l’auto. Il problema è che non vedo le condizioni per una ricostruzione del tessuto sociale”.
Ecco il punto. Adesso che stiamo tornando ad abitare più o meno vicino ai luoghi quotidiani di un tempo (anche se oltre diecimila sono ancora fuori dall’Aquila), avvertiamo con maggiore realismo che il ritorno alla normalità sarà una faccenda complicata e lunga.
Noi aquilani, adesso, vogliamo riprenderci la nostra città.
Le strade dell'Aquila ancora ingombre di macerie e transennate, vietate ai cittadini, e in generale a tutti coloro che non sono operatori della Protezione Civile e dei vigili del fuoco. Capisco che in molti casi possano essere in corso perizie ed accertamenti che richiedono tempo. Però la città deve essere restituita non solo ai suoi cittadini, ma a tutti. L'Aquila e' una grande città d'arte che appartiene almeno un po' ad ogni italiano e la protesta per lo stato di abbandono del centro storico non dovrebbe essere responsabilita' dei soli Aquilani ma di tutti.
Ci hanno detto che ci vorranno dieci anni per ricostruire il centro della città, ma n’è passato già uno e non si vedono progetti e non si definiscono scadenze. Se non si ridà futuro al centro storico, la città muore e noi con lei.
Nel travagliato anno post-sisma, anche la tenuta psicologica di tanti è stata logorata. Ci sono stati suicidi e tentativi di suicidio. La forzata convivenza nelle tendopoli ha provocato conflittualità, crisi coniugali e numerose separazioni. Depressioni e ansia acuta ancora ci affliggono e da qualche mese si registra un fenomeno nuovo. «Disturbi depressivi stanno manifestandosi in persone che avevano sinora reagito con forza al trauma del sisma e alla successiva instabilità. Sono uomini e donne tra i 45 e i 55 anni che ora non vedono un progetto di futuro per la famiglia, il lavoro, la città».
Da soli, l’impresa è impossibile. La reazione compatta e pacifica della gente aquilana, che con le carriole si riappropria dei quartieri tenuti su dalle stampelle, è un salutare segnale di fiducia, di civiltà e di partecipazione.
La disoccupazione è a livelli da capogiro il lavoro manca, il terremoto ha finito per mettere in ginocchio anche le attività produttive; sono 15 mila i lavoratori che usufruiscono della cassa integrazione in deroga. Una situazione di estrema gravità che richiede misure urgenti per la ripresa delle attività produttive al fine di evitare la fuga di centinaia di famiglie. Tra le misure ormai improcrastinabili c’è quella dell’istituzione della zona franca indispensabile per attrarre nuovi investimenti. La situazione è gravissima e rischia di precipitare a giugno, quando scadrà la sospensione del pagamento delle tasse con la restituzione delle somme finora non versate.
L’unica nota positiva in mezzo a questo disastro è l’Università. L’ateneo un anno fa contava oltre 23 mila studenti, oggi ne conta 21 mila nelle varie facoltà che hanno riaperto i battenti quasi tutte in strutture temporanee. Un ateneo deciso a non mollare, anche se resta irrisolto il problema degli alloggi per gli studenti, 8 mila dei quali pendolari. Si è in attesa della nuova casa dello studente e sono in arrivo i fondi promessi dal Ministero per la sua realizzazione.
Quando i cinque milioni di metri cubi di macerie saranno rimosse e la zona rossa sarà riaperta si potrà parlare di emergenza finita e solo allora la rinascita della comunità aquilana potrà finalmente muovere i primi passi.
Fonte: newsletter ACLI di Cernusco
Fino ad allora potranno scorrere fiumi di parole, anche belle, ma L’Aquila e il suo comprensorio rimarranno un paesaggio surreale di giorno, spettrale di notte.