Per padre Ernesto Saksida un minuto di silenzio a Brasilia.
di Mario Pancera
Eravamo a metà degli anni Sessanta. Nella redazione del settimanale «Gente», allora uno dei periodici popolari più letti nelle famiglie italiane (oggi quel mondo è del tutto cambiato), arrivò un prete, magro, sulla quarantina, di modesta statura, vestito da prete come usava allora. L’aveva mandato padre Piero Gheddo, un missionario che era sempre in giro per il mondo e scriveva articoli pieni di notizie su Paesi affamati dai quali si avevano solitamente poche cronache dalle agenzie di stampa. Era uno che si informava. Al telefono mi aveva detto che mi avrebbe mandato un missionario che arrivava dal Brasile dove stava mettendo in piedi una città dei ragazzi, ma aveva avuto un’idea.
Il prete con l’idea era Ernesto Sassida: aveva un pacco di fotografie di bambini e bambine, chiedeva aiuto per propagandare l’adozione a distanza. Questi ragazzini avevano un’aria malandata. «Vengono dalle favelas», spiegò. Non da quella notissima di Rio o altre metropoli, ma da quella che allora era un piccolo centro di nome Corumbà, che non si vedeva neanche sulle cartine geografiche. Un puntolino ai confini del Brasile con la Bolivia e il Paraguay. E, mi diceva, i confini sono così incerti che non sai mai bene in quale paese di trovi. Molti andavano e venivano. Con la legge e fuori. Vite incerte, miseria sicura. Diffidenza, ostilità, paura. Avevano bisogno di pane e istruzione. Quel tipo di adozione risultava nuova e affascinante.
Padre Ernesto era di origine slovena. Infaticabile, una formichina. Mi raccontò che la famiglia di nome Saksida, si era trovata italiana alla fine della prima guerra mondiale. Il ragazzo era entrato nei salesiani e un giorno era stato spedito a Corumbà, dove aveva «ereditato» una baracca da due pastori protestanti. Partiti dopo avere tentato inutilmente di costruire un centro per aiutare i poveri. Lui cercò di portare avanti il discorso. Così era tornato in Italia per tentar di affidare i suoi ragazzi a qualcuno che desse loro il nome o, almeno, il denaro per diventare uomini e donne. L’articolo sul settimanale ebbe un certo successo, padre Ernesto tornò più volte in Italia. Sempre più famiglie (con o senza altri figli) ebbero in casa la foto del loro «figlioccio» e questi ebbero l’aiuto per vivere, lavorare o studiare.
Corumbà è diventata grande, l’ideale «città dei ragazzi» è diventata una concreta Cidade dom Bosco: una scuola dalla materna al liceo per duemila bambini e ragazzi, un teatro, un palazzetto dello sport, un centro per raccogliere ogni giorno i bambini di strada e così via. La creatura di padre Ernesto è, direi, un’esplosione di gioia. Non c’era, c’è. Conosco coniugi che hanno adottato bambini fin da allora e li hanno visti crescere, attraverso le foto spedite loro dal missionario. Questi bambini ora hanno un lavoro, molti hanno studiato e tanti si sono anche laureati e naturalmente hanno messo su famiglia. Pareva letame, è diventato un campo di grano.
Ernesto Saksida (è il suo cognome definitivo) è morto a 94 anni nel marzo dell’anno scorso. Il sindaco ha decretato tre giorni di lutto, un senatore del Mato Grosso do Sul ha chiesto un minuto di silenzio durante una riunione del governo a Brasilia. Ho fatto fatica a scrivere queste righe, mi pareva di accodarmi alle celebrazioni. Logiche, ma lontane dal senso di amicizia che ci legava, pur vivendo così lontani e affidando tutto soltanto alle lettere. Negli ultimi tempi, poi, soltanto un paio di telefonate quando era già malato. L’amicizia. Cerco la parola «amicizia» nel Vangelo e trovo che Matteo scrive d’aver sentito queste parole: «Perché dovunque due o tre persone sono riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro».
Mario Pancera