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Una democrazia per due (Maria Grazia Campari)

Tratto da “Non nonviolenza femminile plurale”, n. 92 del 8 marzo 2007

[Dal sito della Libera Università delle donne riprendiamo il seguente intervento del primo marzo 2007]



Intervengo riprendendo alcuni concetti che sono ampiamente dibattuti fra i giuristi, cercando di allargare lo sguardo, secondo una prospettiva femminista.
Mi riferisco al concetto di democrazia costituzionale come democrazia limitata, conscia del limite, mai statica, che non nega il conflitto (Dogliani).
Un'auspicabile democrazia costituzionale, quindi, autorizza il conflitto, non soffoca e sterilizza i soggetti, è capace di dare forma a contenuti vari. Rappresenta un incentivo alla partecipazione, costituisce utile freno allo slittamento verso forme oligarchiche di democrazia (Azzariti).
Occorre, allora, praticare in radice la scienza del limite; non è più ammissibile, e da tempo, relazionarsi ai problemi dell'assetto democratico, parlando per e di tutti gli uomini ("i diritti dell'uomo" espressione comprensiva di tutte le donne), occorre scomporre l'umanità nei due soggetti sessuati e registrare come essi parlino e agiscano un'esperienza che è comune e, contemporaneamente, anche diversa.
Questi temi appartengono ad un dibattito femminista, rimasto per anni alquanto offuscato.
Abbiamo spesso dovuto constatare la grande distanza che separa le donne dai luoghi della decisione politica ed economica, la loro assenza dalle istituzioni definite rappresentative, con il risultato che la irrilevanza della loro presenza le esclude, di fatto, dalla elaborazione delle regole che costituiscono l'ordine giuridico condiviso, perno della democrazia.
È come se la costituzione materiale di questo Stato fosse governata da una discriminazione nei confronti delle cittadine, impedite nell'esercizio dell'elettorato passivo (possono votare chi le rappresenti, scarseggiano le opportunità di essere a loro volta rappresentanti).
Si è venuta determinando una forma particolare di "democrazia" basata esclusivamente sul sesso maschile, una democrazia monosessuata e discriminatoria per il soggetto femminile, una democrazia sostanzialmente a-partecipata, una oligarchia a-democratica. La situazione è penalizzante per tutti, come risulta evidente dall'attuale, infelice stato di cose, rispetto al quale occorre cercare una modificazione possibile.
Secondo me, la ricerca di piste in uscita da questa situazione, pesantemente costrittiva per molte vite singole e associate, rende necessario un dibattito che favorisca il confronto con i soggetti portatori di prospettive critiche sulle politiche in atto e sulla cultura sottesa. Ciò significa in primo luogo desistere dalla "conventio ad excludendum" delle donne dalla sfera pubblica.
Mi riferisco, quando parlo di soggetti portatori di una visione critica dell'esistente, in particolare ad alcune (sperabilmente numerose) donne che hanno elaborato culture antagoniste rispetto al conformismo alla tradizione patriarcale.
Come ormai dovrebbe essere chiaro, la loro esclusione ha il senso preciso di amputare il tessuto democratico partecipativo in favore di una visione egemonica della democrazia, quella stessa che produce i notevoli guasti attuali.
Con questa precisazione: la limitazione di ciò che sarà ammesso a far parte della sfera pubblica, la frattura dicotomica fra eletti ed esclusi non è certo meno grave allorché gli eletti si presentano sulla scena, arrogandosi il diritto di parlare in nome e per conto degli esclusi, assimilandoli e dettando in loro vece un programma, elaborato principalmente mettendoli a tacere.
Non è lecito pensare alla democrazia come ad una mensa imbandita di sostanze precotte, pronte per il consumo.
Il concetto di democrazia ha, invece, il senso del dialogo: un esporsi all'altro per un confronto incessante che apre al conflitto per la modificazione, anche e prioritariamente la modificazione di sè, nel legame sociale che riconosce a sè e all'altro responsabilità per la vita collettiva.
Vediamo un aspetto sbagliato di assimilazione, una palese mancanza del senso del limite, nel comportamento attuale del soggetto maschile che monopolizza la sfera decisionale nella polis.

Questo approccio critico trova un riscontro non occasionale nel dibattito sui temi della rappresentanza e delle unioni di fatto (Pacs o Dico) in corso a Milano nelle assemblee di "Usciamo dal silenzio".
I due temi sono interconnessi.
Come si è detto, le unioni civili, di mutuo aiuto o patti civili di solidarietà, si inseriscono in un contesto giuridico ancora di stampo patriarcale, la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), connotata per la donna in senso illiberale, nella quale è auspicabile che un nuovo istituto svolga una funzione diversificante, che apra per tutti spazi di libertà, dando effettività ai valori progressivi dei principi fondamentali della Costituzione repubblicana (artt. 2 e 3 Cost.).
Come conseguenza auspicata, il privato dovrebbe cessare di costituire per le donne uno spazio obbligato di illibertà, di assoggettamento alle necessità del nucleo famigliare.
La sfera domestica dovrebbe cessare di essere contrassegnata dalla privazione che vede la donna servente; il privato non più sfera della privazione, consentirà una ridefinizione dell'entrare in politica attraverso la ridefinizione del gioco reciproco delle due sfere (privato e pubblico) e del ruolo reciproco di donne e uomini.
Questa ridefinizione dell'entrare in politica potrà avvenire ad opera di donne per le quali il privato cesserà di essere sfera della privazione.
Se le donne non servono la necessità del privato, l'assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli materiali viene meno, con ricadute positive sulla regola costitutiva e organizzativa della politica (Gianformaggio).
Le fila del ragionamento risultano strettamente collegate: la fine della irresponsabilità maschile rispetto al privato può concorrere a determinare la fine del monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica.

Per questo fine penso si dovrà dare avvio anche ad un'opera di attuazione costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 49 e 51, varando provvedimenti capaci di ricollocare nel quadro della rappresentanza le questioni della partecipazione democratica delle minoranze e della "democrazia per due".
L'art. 49 Cost. assegna ai partiti il compito di determinare, con metodo democratico, la politica nazionale. Per il principio di non contraddizione, la realizzazione del programma costituzionale esige che la vita interna e la struttura di tali partiti sia disciplinata da regole democratiche legislativamente determinate, ostensibili e pubblicamente verificabili: è quindi necessaria una legge ad hoc (che manca da sessanta anni).
L'art. 51 determina la possibilità di accesso a tutte le cariche pubbliche per tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso, impegnando la Repubblica a promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini.
Questi provvedimenti mancano totalmente, non sono all'ordine del giorno nè in programmi di partito, nè in alcun dodecalogo governativo.
L'ipotesi che mi sembra più ragionevole è quella formulata anche nelle assemblee di "Usciamo dal silenzio": le liste di candidatura per le cariche elettive dovranno prevedere una presenza numericamente paritaria in posizione alternata secondo l'ordine alfabetico, di donne e di uomini (50 e 50).
Analogamente, la designazione di donne a tutte le cariche in strutture politiche, economiche, giurisdizionali (Governo, Consiglio nazionale dell'economia, Consiglio superiore della sanità, Banca d'Italia, Consiglio superiore della magistratura, Corte costituzionale, etc.) dovrà essere tale da conseguire in prospettiva ravvicinata nel tempo la presenza paritaria di persone dei due sessi.
Non è questione di quote, evidentemente, ma di presenze che costituiscano proiezione proporzionale al numero delle donne presenti nella società.
Per l'effettività delle previsioni, sarà necessario determinare precise azioni a tutela e sanzioni da infliggere nei casi di violazione dell'obbligo.
Del resto, l'adozione di misure speciali temporanee e l'approvazione di una legge attuativa dell'art. 51 Cost per aumentare immediatamente il numero di donne aventi cariche politiche e pubbliche, è quanto sollecita il Comitato europeo per l'eliminazione delle discriminazioni contro le donne, in base alla Convenzione omonima, ratificata da ultimo nel settembre 2000. Le raccomandazioni del gennaio/febbraio 2005 sono rimaste puntualmente inattuate.
Una presenza organizzata di donne sulla scena politica, mi pare, allora, necessaria per conseguire situazioni che ci pongano finalmente al livello della decenza europea.
Non a caso il Trattato istitutivo di una Costituzione per l'Europa prevede agli articoli 45 e 46 principi di democrazia rappresentativa in uno con principi di democrazia partecipativa.
A queste previsioni spetta anche a noi di dare corso, nei fatti.
Democrazia è un concetto che implica una pratica, quella di libertà di partecipazione per tutte/i, ciò che significa prendere parte ai processi decisionali che governano la vita di ognuno. È quindi necessario che alla valutazione delle priorità partecipino diversi portatori di istanze differenziate.
È possibile, in tal modo, contribuire alla ridefinizione della cittadinanza come plurisoggettiva, cosmopolita, condivisa con l'altra/o, diversa/o rispetto al cittadino della tradizione borghese patriarcale.