Mussolini
- Buratti Gino, Marchi Pierpaolo, Pancera Mario, Ricci Debora
- Categoria: Democrazia
- Visite: 534
Il 16 novembre 1922, Benito Mussolini, che aveva costruito il Partito nazionale fascista su sua misura, dopo aver tanto gridato sulle piazze, stracciò in Parlamento i princìpi, i valori e gli ideali dei rappresentanti degli altri partiti con una sola frase: «Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli di camicie nere.». Fu una ingiuria plateale, dopo la quale i parlamentari avrebbero dovuto insorgere e cacciarlo. Non accadde nulla. Solo un socialista riformista, Modigliani (fratello del pittore) gridò: «Viva il Parlamento», ma gli altri lo zittirono, impauriti da tanta audacia. Tre anni dopo, aggredito e ferito, dovette espatriare.
L'Italia non fascista avrebbe dovuto scendere nelle strade a difesa della propria dignità e della propria libertà, guidata dai leader di quei partiti che erano stati così svillaneggiati e offesi: e con essi era stato insultato e offeso il Paese. Da tempo tutti sapevano quel che avevano in mente i fascisti: il potere. Mussolini voleva tutto, senza intese di alcun genere, anche se aveva finto di trattarle. Il re Vittorio Emanuele III, garante della Costituzione di quei tempi, non mosse un dito.
I partiti di centro cominciarono a spostarsi e ad affollare i banchi dell'estrema destra, come fece notare l'ex ministro della destra liberale Antonio Salandra. La Chiesa non prese nessuna chiara posizione, i cattolici si divisero, i più coraggiosi si ritirarono poi sull'Aventino. Ci fu lo sdegno, ma invece di chiamare i carabinieri e far mettere in prigione il pazzo che dichiarava di distruggere lo Stato e la sua ancora debole democrazia parlamentare, la maggior parte dei politici cercò, in vario modo, le strade della sopravvivenza. Chi resistette finì al confino, in galera o riparò all'estero.
Chi aveva stracciato le regole del gioco democratico, tappò con i soldi e con le leggi la voce della stampa e i giornalisti, comprati e venduti, vissero per vent'anni sulle «veline» del governo fascista. La magistratura si adeguò. Il socialista Giacomo Matteotti che, nel 1924, prese la parola contro il fascismo, venne ucciso. Quindici anni dopo furono promulgate le leggi razziali e l'Italia si trovò in guerra accanto alla Germania nazista.
Chi contrastò questa guerra, dopo l'8 settembre 1943, fu chiamato variamente: patriota o partigiano dagli antifascisti, bandito dai fascisti della Repubblica sociale italiana: quando veniva catturato, era torturato, impiccato o fucilato. A guerra conclusa, con la fine di Mussolini e della repubblica di Salò, il 25 aprile 1945 fu dichiarato festa della Liberazione. Dopo due decenni, alcuni conflitti e una guerra fratricida, l'Italia si era liberata del fascismo, del mussolinismo e così via. Tornò la democrazia. I giornali ripresero le loro libere voci. Molti, cattolici e non, in mezzo a mille difficoltà si adoperarono giustamente per sanare le ferite e riappacificare gli animi.
In pochi anni il Paese permise ai reduci della Rsi di riunirsi in un Movimento sociale italiano, Msi, poi divenuto partito. Successivamente il Msi è diventato Alleanza nazionale, An, e infine è entrato nel Popolo della libertà guidato da uno degli uomini più ricchi del mondo, attraverso amici e familiari controllore del maggior numero di mass media esistenti in Italia, il quale - ha detto - intende modificare la Costituzione della repubblica per governare nei prossimi decenni.
Cosa chiedono oggi gli eredi dei reduci della repubblica sociale (e, anzi, alcuni vecchi reduci davvero)? Nella convinzione di vincerle e tornare al potere sconfiggendo gli avversari, attraverso il loro leader hanno chiesto che il 14 aprile 2008, giorno delle elezioni del prossimo Parlamento, sia considerato festa della Liberazione. Così cambia la storia.
Buratti Gino, Marchi Pierpaolo, Pancera Mario, Ricci Debora