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Davide Tondani ci ha inviato questo articolo di Chiara Saraceno pubblicato su La Stampa di lunedì 3 ottobre 2005


Nel suo intervento al Sinodo dei vescovi Papa Benedetto XVI ha lamentato di una marginalizzazione del discorso religioso dal discorso pubblico. Può sembrare una preoccupazione fuori posto e persino paradossale in un’epoca, e in un Paese come il nostro, in cui i politici e gli opinionisti fanno a gara a dichiarare la propria religiosità, o almeno la propria ricerca di Dio, e in cui autorevoli esponenti della Chiesa prendono posizione non solo sui valori, ma anche sulle soluzioni legislative e le tecniche elettorali e talvolta anche su questioni del tutto irrilevanti dal punto di vista religioso, come le intercettazioni telefoniche. Tuttavia mi sembra che, intenzionalmente o meno, il Papa, nel denunciare l’assenza di Dio dalla vita pubblica, segnali un problema le cui cause, prima che esterne, sono tutte interne alla Chiesa come istituzione.
L’assenza di Dio dalla vita pubblica va infatti di pari passo con la sistematica confusione - ad opera di molti esponenti della Chiesa cattolica (a partire dal segretario della Cei mons. Ruini) e di molti cosiddetti laici devoti - tra discorso pubblico e discorso tout court politico. E tra diritto di parola e di predicazione e imposizione erga omnes, se non dei propri principi di fede, delle norme giuridiche che si ritiene ne debbano discendere. Da questa confusione nascono tutti i fondamentalismi religiosi. Nascono anche le forme di indifferenza che preoccupano il Papa. Il rischio per la religione non è il suo confinamento nella sfera privata, ma il suo essere appiattita in discorso politico e di pretesa normazione pubblico-giuridica di ogni aspetto della vita privata e sociale. E' a motivo di questa confusione che la Chiesa cattolica italiana sembra costantemente afflitta dalla sindrome della Chiesa del silenzio, neanche si trovasse nella situazione della Chiesa cattolica russa o cinese sotto il regime comunista. Ogni critica, ogni dissenso, viene interpretato non solo come un atto di lesa maestà, ma di attacco alla sua libertà di esprimersi come e su ciò che ritiene. Di più, chi non è credente (cattolico), o comunque non ritiene che la Chiesa cattolica abbia il monopolio dei valori e della definizione delle regole, automaticamente viene considerato con sospetto, quando non giudicato fuori norma. Purtroppo molti laici più o meno devoti sembrano assecondare questo atteggiamento, invece di difendere non solo la laicità dello Stato, ma la facoltà dei singoli cittadini e gruppi di dissentire dalle, legittime, posizioni della Chiesa cattolica e di dire la loro senza essere per questo immediatamente criminalizzati.
Dopo le, caute, polemiche suscitate dall’intervento di Ruini in tema di legislazione su famiglia e dintorni, il segretario della Cei, Betori, ha annunciato fieramente che la Chiesa continuerà a dire la sua e non si farà intimidire dalle proteste di una trascurabile minoranza. Non avevamo alcun dubbio che lo avrebbe fatto, come sempre. E' un diritto della Chiesa come istituzione e dei singoli preti e vescovi come cittadini. Il diritto di parola e di opinione fa parte dei diritti di libertà per il quale molti laici hanno combattuto nel faticoso processo di costruzione della democrazia in cui non sempre hanno trovato al proprio fianco la Chiesa cattolica. Ma questo diritto va riconosciuto anche a chi non la pensa come la Chiesa e i suoi autorevoli vescovi. Ed invece non è così. Il dissenso viene immediatamente interpretato come attacco alla libertà della Chiesa, non come legittima rivendicazione della libertà dall’interferenza della Chiesa nella vita e nelle decisioni di chi non ne fa parte e non ne riconosce l'autorità. Ci si scandalizza, non si capisce perché, degli studenti che hanno contestato Ruini. Ci si straccia le vesti ogni volta che qualcuno chiede la rimozione di un simbolo religioso da un luogo pubblico, cioè di tutti. Addirittura si manda sotto processo un giudice che interpreta la legge e la Costituzione come garanzia della libertà di tutti, non di una sola parte. Ma non ci si scandalizza, non si protesta, spesso ci si accoda, nel migliore dei casi ci si rattrista un po', della continua opera di squalificazione morale che la Chiesa come istituzione e i suoi prestigiosi rappresentanti italiani mettono in opera quotidianamente verso chi non la pensa come loro. Lo ha fatto anche Benedetto XVI, che ha equiparato tout court chi fa a meno del discorso religioso nella vita pubblica a chi pretende di diventare norma di tutto e perciò fonte di ingiustizia. Laicità e totalitarismo vengono di fatto equiparati. Come se la storia non fosse lastricata di tremende ingiustizie perpetrate anche in nome di Dio. E come se la democrazia non fosse quel sistema, certo imperfetto, che impedisce proprio che chiunque pretenda di porre sé come metro di tutto - di essere «unico padrone del mondo».
I politici di ogni colore dovrebbero avere a cuore non solo la libertà della Chiesa cattolica e dei suoi rappresentanti, per altro pienamente garantita sul piano normativo e istituzionale, ma il rispetto della libertà e della dignità dei cittadini, a prescindere da come la pensino sulle posizioni della Chiesa e a prescindere dalla loro consistenza numerica. I vescovi italiani non si fanno intimidire. Non si può dire altrettanto della maggior parte dei politici, con pochissime eccezioni. Ciò non aiuta la laicità dello Stato e la democrazia, ma forse non aiuta neppure lo sviluppo di una coscienza religiosa, anche se può rafforzare la Chiesa come istituzione.

Oggi nel dibattito pubblico vige la sindrome di accerchiamento sia di coloro che si professano cristiani che da coloro che si dicono atei in nome di una nuova figura dei così detti “devoti atei”.
Ho a lungo riflettuto, non la/da sola, sui recenti eventi e non nascondo di aver provato e provare un forte disagio per la strumentalizzazione e la distorsione che è avvenuta su questi temi.
Ritengo che il problema sia mal posto e che l’aspetto centrale sia rappresentato da come testimoniare i valori in cui si crede, come coniugarli con la realtà in cui viviamo: relazioni famigliari, vita politica, il lavoro e il proprio tempo libero.
Sicuramente non riusciremo a coniugare i valori in cui crediamo con la realtà, chiudendoci in solitudine ma bensì accettando le difficoltà, le contraddizioni della nostra stessa natura umana e impegnandoci al servizio dell’intera comunità, non contrapponendo i prodotti dell’ingegno e della razionalità con falso moralismo ma ritenendole frutto della nostra missione terrena, quando guardano e mirano al bene comune.
Le contraddizioni a cui siamo sottoposti, l’impossibilità di coniugare i valori e la realtà non può trovare soluzione in una sorta di religione civile dove a perdere, sembrerà un paradosso, diventa lo spirito cristiano ridotto a un istituzione mondana e non più espressione della Parola Divina e perciò trascendente la realtà materiale.
Lo Spirito cristiano non è una sede di valori temporali definiti, da forma e valore alle realtà temporali ma non si identifica strettamente con alcuno di loro – questo è invece tipico delle ideologie.
Gesù e il suo messaggio non possono essere ridotti a portavoce e manifesto di un partito o parte politica, e allo stesso modo la Chiesa non può confondersi con il sistema politico o legarsi a uno di questi poiché è il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana, la storia della Salvezza trascende la storia umana.
Proprio per essere fedele alla sua missione la Chiesa dovrebbe rinunziare all’esercizio di certi diritti offertigli dal sistema politico, benché legittimamente acquisiti, sincerarsi che siano frutto di un riconoscimento di diritti per tutti e che non rientrino in una logica e un intento di “farsela amica”, dal momento in cui il loro esercizio può far dubitare della sincerità della sua testimonianza.
Il Cristo non obbliga nessuno anzi rifiuta le coercizioni, i beni materiali e la conversione è l’atto di libertà della coscienza e questo è stato il suo grande messaggio. Coscienza a cui si riconducono tutte le scelte che facciamo quotidianamente e senza la quale la stessa religione sarebbe espressione di forza e di coercizione della disciplina.
Allo steso modo ritengo che le continue incursioni delle istituzioni ecclesiastiche siano dovute alla debolezza della politica e alla mancanza di fiducia nel laicato che ora più che mai devono proporsi con un nuovo impegno sociale, che con forza morale si appoggi sulla libertà e sul senso di responsabilità.
Ciò non toglie che possano essere valutazioni diverse sulla medesima questione ma l’obiettivo deve coincidere con il bene comune che ponga al centro i diritti della persona, condizione necessaria per costruire e garantire la partecipazione di tutti i cittadini, ed in particolare della donna, ritenuta per sua stessa natura la sola in grado di contribuire in modo determinante a dare la vita.

Sara Vatteroni

Appello ai Pastori

La chiesa italiana, malgrado sia ricca di tante energie e fermenti, sta subendo un'immeritata involuzione.
L'annunciato intervento della Presidenza della Conferenza episcopale, che imporrebbe ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui "diritti delle convivenze" é di inaudita gravità.
Con un atto di questa natura l'Italia ricadrebbe nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino. Condizione insorta dopo l'unificazione del paese e il "non expedit" della S.Sede e superata definitivamente solo con gli accordi concordatari.
Denunciamo con dolore, ma con fermezza, questo rischio e supplichiamo i Pastori di prenderne coscienza e di evitare tanta sciagura, che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia.
Si può pensare che il progetto di legge in discussione non sia ottimale, ma é anche indispensabile distinguere tra ciò che per i credenti è obbligo, non solo di coscienza ma anche canonico, e quanto deve essere regolato dallo Stato laico per tutti i cittadini.
Invitiamo la Conferenza episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per tutti.

Per Firmare l'appello

L'ex capo dello Stato: se la Chiesa proclamasse un obbligo di scelta distruggerebbe il cattolicesimo parlamentare

di VITTORIO RAGONE ROMA –
(La Repubblica del 15 febbraio 2006)


Un altolà senza sfumature al cardinale Ruini, se davvero vuole imbrigliare nei precetti della Chiesa la libertà di decisione politica sui Dico, un tempo noti come Pacs. Oscar Luigi Scalfaro, presidente emerito della Repubblica e padre nobile del centrosinistra, non è contrario alla mediazione Bindi-Pollastrini, e teme la "distruzione" del cattolicesimo parlamentare se la Cei dovesse lanciare diktat a chi riconosce il suo magistero. In sessant'anni - dice - questo non è mai accaduto. Prima di correre certe avventure Ruini dovrebbe avviare "un ampio esame" dentro l'assemblea dei vescovi.

Presidente Scalfaro, il Parlamento aspetta di sapere quale forma assumerà il "non possumus" di Ruini sulle unioni di fatto. Che cosa succederebbe se la Cei o il Papa avanzassero richieste "vincolanti" per i politici cattolici?
"La Chiesa, pure nella fermezza dei suoi principi, non ha mai compiuto in sessant'anni interventi che ponessero a un bivio obbligato i parlamentari cattolici. Io confido che interventi del genere non ci saranno. Se dovessero invece avvenire, distruggerebbero la possibilità stessa di una presenza dei cattolici in Parlamento in condizioni di dignità e libertà, quella libertà che consente l'assunzione individuale delle responsabilità. Ma a chi serve, oggi e domani, un gruppo di parlamentari che si limitano a eseguire gli ordini? Certo non alla Chiesa. Sarebbero una inutile pattuglia, e l'effetto sarebbe una crescita di laicismo esasperato".

Il centrosinistra non drammatizza troppo l'iperattivismo vaticano? È vero che è stato l'Avvenire a citare Pio IX, ma dall'altra parte si invoca il Risorgimento, si tracciano scenari foschi, si ipotizza, come anche lei fa, il naufragio del cattolicesimo politico. Eppure gli scontri tra l'etica cattolica e quella laica, condivisi e alimentati dalla Chiesa, in Parlamento e fuori non sono mancati. Gli anni Settanta, il divorzio, l'aborto, i referendum. Grandi asprezze, ma alla fine siamo tutti qui, comprese le leggi soggette ad anatema.
"Vede, io sono nella vita politica da 61 anni, dalla Costituente. È vero, abbiamo attraversato come parlamentari cattolici momenti faticosi, difficili, prese di posizione delicate. Ma già dall'Assemblea costituente fu preminente in tutti la ricerca di un denominatore comune sui temi dei diritti e della dignità delle persone. Ne nacque un documento d'eccezione, la Carta, del quale dobbiamo ringraziare i grandi nomi che resero un tale servizio al popolo italiano: penso, nel mondo cattolico, a De Gasperi, a La Pira, a Dossetti, più tardi a Aldo Moro e a tantissimi altri rappresentanti del popolo. Il grande tema per noi cattolici era fare sintesi fra diritti e doveri del cittadino e diritti e doveri del cristiano, portare nella politica il pensiero filosofico che anima i principi cristiani sempre con grande rispetto per le impostazioni altrui. L'articolo 67 della Costituzione stabilisce che ogni membro del parlamento rappresenta la nazione e esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Al tempo del divorzio e dell'aborto, che lei cita, in entrambi i casi il partito mi diede incarico di parlare ufficialmente a nome del gruppo democristiano. Non dimentico, e ne ringrazio la Provvidenza, che nell'uno e nell'altro caso ebbi ascolto ampio, proprio dagli avversari politici: non condivido le tue tesi - mi fu detto - ma apprezzo lo sforzo di dialogare. Dopo la sconfitta sul divorzio qualcuno in assoluta buona fede sostenne che non potevamo collaborare a formulare gli articoli della legge perché così facendo avremmo aiutato un istituto che contestavamo. Ma giustamente vinse la tesi che quando cade l'affermazione di un principio rimane sempre il dovere di lottare per il male minore".

Insomma, lei sostiene che la capacità di ascolto reciproca non è venuta mai meno, nemmeno quando lo scontro era al massimo della tensione.
"Non solo. C'è anche un altro insegnamento. La chiarezza delle posizioni della Chiesa, e il risultato del referendum che diede ragione alle tesi contrarie a quelle sostenute da noi cattolici, non impedirono che tanti cattolici si servissero poi dell'istituto del divorzio. Ne è prova che da anni all'interno della gerarchia ecclesiastica si discute sull'ammissibilità dei divorziati ai sacramenti".

L'invito al pragmatismo, per tornare a Ruini, onestamente oggi non sembra avere grandi chance. La grandinata vaticana - da Avvenire a Sir, dall'Osservatore allo stesso Ratzinger - non lascia grandi margini alla mediazione.
"La profonda devozione e ubbidienza alla chiesa madre e maestra - e mi piace ricordare che fu la saggezza di Giovanni XXIII, oggi beato, a dare nella sua enciclica questa preminenza alla maternità della Chiesa - mi fa confidare che il richiamo che è stato annunziato, e che manifesta un diritto e anche un dovere della Chiesa di dire il suo pensiero, non abbia la forma di una imposizione".

Il fronte dei sessanta parlamentari della Margherita che difendono i Dico non ha un gran futuro, se l'intervento di Ruini dovesse trasformarsi in un vero e proprio precetto. Non crede?
"Un atteggiamento rigido della Chiesa sfascerebbe tutto. Ne sono convinto".

Lei, pur da senatore a vita, è un uomo del centrosinistra: quale potrebbe essere una contromisura per far prevalere la moderazione?
"Posizioni da parte della Chiesa che portassero a conseguenze tanto pesanti, così come non si sono verificate neanche quando furono compromessi l'indissolubilità del matrimonio e il diritto alla vita, richiederebbero a mio avviso un ampio esame nell'Assemblea dei vescovi italiani, la Cei".

Nel merito della legge, come giudica la soluzione Dico "inventata" da Bindi e Pollastrini?
"Mi piace ricordare che quando il presidente del consiglio Romano Prodi annunziò nella formulazione del programma il desiderio di riconoscere dei diritti e dei doveri a ciascun cittadino, affermò espressamente che con quel programma prendeva l'impegno di non toccare o turbare l'istituto del matrimonio così come previsto dalla Costituzione. Mi pare giusto non fare processi alle intenzioni. Le proposte di legge che sono state presentate da posizioni a mio avviso non accettabili sono giunte con non poca fatica (quanto intensa quella del ministro Bindi!), in questo necessario dialogo tra impostazioni diverse, a un testo che come tutti i testi è indubbiamente migliorabile ma che certamente non prevede - per essere chiari - il matrimonio fra gli omosessuali o una formula mascherata ma simile. Si tratta di dare eventuali, maggiori garanzie? Se ne può discutere, rimanendo chiaro un punto: se al dunque si fosse richiesti di un voto esplicito che preveda di fatto il matrimonio per gli omosessuali, allora, senza bisogno di disturbare la dottrina della chiesa cattolica, è chiaro che un voto a favore non si può dare perché in contrasto con una realtà di storia dell'umanità, che prevede per il matrimonio un maschio e una femmina".

Il matrimonio gay, per la verità, sembra essere un simbolo e uno spauracchio, anche se di prima fila. Quel che la Chiesa sembra temere nella sostanza è che il riconoscimento delle unioni civili, innanzitutto eterosessuali, sgretoli la famiglia "naturale" su cui si fonda la sua dottrina.
"È vero, c'è chi obietta che aprendo una seconda strada si dà ai cittadini con troppa facilità la possibilità di un'altra scelta. La preoccupazione della Chiesa è più che condivisibile. Ma il problema vero è rafforzare nei cattolici la fede, in modo che sappiano scegliere secondo i principi nei quali credono. Più che allo Stato, al quale si chiede di impedire una duplice strada che consentirebbe gli abusi, il tema è affidato alla evangelizzazione e alla formazione dei fedeli. Lo Stato deve pensare a tutti e, pur non tramutando speranze, desideri e sogni in diritti deve, se esistano basi certe per individuare quei diritti, riconoscerli dove e quando ci sono".

(15 febbraio 2007)