Caro direttore, ho letto con attenzione sul tuo giornale sia il commento di Corrado Oddi che quello di Stefano Rodotà sulle nuove norme relative alla gestione del servizio idrico e, visto che vengo chiamato in causa, ritengo necessario fare alcune puntualizzazioni. Innanzitutto dispiace che il dibattito abbia assunto contorni così fortemente ideologici. Confrontarsi più sulla tesi sinceramente surreale della «privatizzazione dell'acqua» - argomentazione che tutti sappiamo essere pura mistificazione comunicativa - che sul merito della riforma significa sviare l'attenzione da un dibattito che ha una importanza centrale per il futuro dell'Italia. Proviamo a guardare ai fatti. La legge Ronchi detta una serie di norme sui servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, trasporti) che si sono rese necessarie per interrompere il susseguirsi di procedure di infrazione ai danni dell'Italia, procedure scattate a causa di modalità di assegnazione del servizio giudicate anomale o poco trasparenti dalla Commissione europea.
La legge non contempla alcuna privatizzazione obbligata ma introduce l'obbligo di indire gare d'appalto per tutti i servizi pubblici locali, compresi quelli relativi al sistema idrico che ora sono gestiti dai Comuni attraverso affidamenti senza gara a società a capitale interamente o parzialmente dell'ente pubblico locale (affidamento in house) o con gara a società i cui componenti sono talvolta privi dei necessari requisiti tecnico-professionali per garantire un sevizio adeguato.
Il decreto Ronchi, inoltre, conferma il carattere pubblico del bene acqua che resta in regime di bene amministrato. Lo fa in maniera chiarissima all'articolo 15 dove parla di «piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche». Tutte le leve di governo, inoltre, restano nelle mani di autorità pubbliche: indirizzo, controllo, definizione delle tariffe, tutti affidati a enti locali e Ato, a loro volta controllati dai comuni. Così come resta demaniale e inalienabile la proprietà degli impianti di acquedotto, depurazione e fognature.
Esaurita questa premessa mi chiedo: fa bene al Sistema Italia continuare a difendere un sistema in cui si deroga allegramente a un elementare principio di civiltà giuridica e di corretta prassi amministrativa come quello della gara? A chi giova eludere un percorso normativo che punta a piantare paletti precisi sul fronte della trasparenza e della concorrenza? E ancora: è davvero nell'interesse del cittadino assicurare la sopravvivenza di società che spesso assomigliano a stipendifici o a vere e proprie cittadelle del potere?
Io credo che tutti dovremmo ritrovarci su un principio: che il gestore - misto, pubblico o privato - sia qualificato, efficiente, controllato dai competenti organismi e trasparente nella gestione. Affermare l'intangibilità dell'acqua come bene pubblico e cercare di introdurre in Italia una gestione industriale dei servizi idrici, dove finora hanno trionfato le lotte di potere, le inefficienze e gli sprechi non credo lasci prefigurare gli scenari apocalittici cari ai referendari. Quel che è certo è che oggi in media, il 30 per cento dell'acqua (circa 3-4mila miliardi di metri cubi) viene persa lungo le condutture, per un controvalore di 2,5 miliardi di euro l'anno, una cifra che ovviamente finisce per pagare il cittadino-contribuente. In Germania, tanto per capirci, le perdite non superano il 7 per cento.
Non so a voi ma a me sembra una situazione francamente intollerabile. E questo dissesto non può essere messo sbrigativamente in conto a «dieci anni e più di privatizzazioni» come fa Oddi nel suo commento perché oggi su 114 società affidatarie soltanto 7 sono interamente private e tra le società pubbliche ci sono esperienze disastrose come quella dell'Acquedotto Pugliese. Così come citare, come fa Stefano Rodotà, la ripubblicizzazione dell'acqua avvenuta a Parigi come punto forte al tavolo del dibattito è argomento quantomeno debole visto che un recente articolo di Le Monde intitolato: «Distribuzione dell'acqua: si risveglia la concorrenza, i prezzi si abbassano» ci informa che in Francia, nell'ultimo anno, si è verificata una diminuzione media tra il 5 e il 9% delle tariffe e questo perché, cito testualmente, «il settore, che ha per molto tempo funzionato come un oligopolio, si è aperto alla concorrenza».
Il punto vero, insomma, non è il «derby» tra pubblico e privato. L'esperienza italiana dimostra che non esiste l'assoluto primato del pubblico o del privato a livello di capacità di gestione. Non è opportuno, quindi, condurre il dibattito a colpi di dogmi così come non lo è citare a sproposito le esperienze di altri Paesi.
Io credo che il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua non dovrebbe rinchiudersi nella ridotta dell'ideologia, evocando fantomatici colpi di coda del capitalismo selvaggio pronto a speculare su un bene naturale come l'acqua, ma piuttosto dovrebbe invitare il governo a compiere l'ultimo passo individuando standard minimi di qualità, vigilando sulle tariffe e garantendo il corretto funzionamento delle gare sul territorio. Sollevare una cortina fumogena e cristallizzare la situazione attuale non serve a nessuno, se non ad alcune lobby di potere ben contente di conservare la loro rendita di posizione. La chiave dei dibattito è piuttosto quella di individuare controllori efficienti con poteri reali. In questo senso sarebbe quantomai opportuna un'Autorità di controllo a livello nazionale, come sottolineato sul Corriere della Sera da Giulio Napolitano. Un atto dovuto nei confronti del cittadino-consumatore che deve essere tutelato e garantito rispetto a possibili comportamenti speculativi.
* ministro per le politiche comunitarie
Fonte: Il Manifesto del 28 aprile 2010