Articolo pubblicato su "Il Manifesto" di domenica 24 maggio 2009. Jayati Gosh è economista, professoressa alla Jawaharlal Nehru University di New Delhi e associata alle Universitá di Tufts e di Cambridge (Gran Bretagna), è la co-fondatrice della Economic Research Foundation, New Delhi.
L'Occidente teme il benessere di Cina e India, che "brucia" risorse che considerava sue.
Una visita in Europa occidentale lo scorso marzo mi ha offerto una visione lievemente diversa, e un pò inquietante, circa lo svolgersi degli avvenimenti economici e delle loro coordinate.
Quando una crisi si sviluppa, in ogni parte del mondo ci si interroga sulle attuali istituzioni economiche - e naturalmente paure, insicurezze e preoccupazioni incidono pesantemente sulla visione del futuro. Le principali domande riguardano le entrate economiche e la distribuzione delle risorse (non succede sempre cosí?), ma in questi tempi di crisi globale le argomentazioni possono diventare piú taglienti e perfino laceranti.
Due sono gli argomenti piú usati pubblicamente.
Il primo consiste in un'animosità, appena o per niente dissimulata, nei riguardi di Cina e India (inevitabilmente associate, nonostante le enormi differenze), indicate come beneficiarie della globalizzazione e voraci divoratrici di risorse globali.
Il secondo rivela una generale incapacitá di concepire una via di uscita dalla crisi attuale che non sia semplicemente replicare il passato, persino quando ció risulti chiaramente insostenibile.
L'atteggiamento europeo nei confronti dell'Asia é stata a lungo caratterizzata da una combinazione variabile di paura e fascinazione, rispetto e repulsione, competizione e colonialismo - come gli studi sull'Orientalismo hanno reso fin troppo evidente.
Ma le percezioni più diffuse oggi sono in qualche modo differenti; nutrite da media sensazionalistici che non hanno tempo o spazio da perdere per dedicarsi alle complessità, si muovono come un pendolo passando dall'idea di un'Asia popolosa terreno di crescita per povertà e terrorismo, a quello di un export aggressivo che grazie al basso costo della mano d'opera, porterà alla crescita del livello di vita di una futura classe media di due miliardi di persone, che fagociterà insostenibilmente le risorse mondiali.
La pura ignoranza può spiegare molte cose.
In Europa, persino nei settori più informati dell'opinione pubblica, quasi non ci si rende conto di quanto la globalizzazione abbia inciso negativamente sulle condizioni di vita e sull'occupazione della maggior parte delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, compresi i paesi asiatici a forte crescita.
La crisi agraria è considerata storia passata, ormai superata dalla crescita dei prezzi dei prodotti agricoli sul mercato mondiale tra il 2002 e la prima parte del 2008, sebbene le entrate degli agricoltori non siano cresciute e le coltivazioni siano sempre meno accessibili nella gran parte dei paesi in via di sviluppo.
A causa del volume dell'esportazione di manufatti asiatici, c'è ancora una diffusa percezione del dirottamento del lavoro manufatturiero dal Nord al Sud - benché l'occupazione manufatturiera sia diminuita nella totalità dei paesi in via di sviluppo, sia a malapena cresciuta nella maggior parte dei paesi asiatici, e sia diminuita dal 1997 in quella che è in genere considerata l'officina del mondo, la Cina.
A Londra, durante un dibattito pubblico, uno dei partecipanti si è chiesto se Cina e India, recentemente arricchitesi per avere sfruttato i processi di globalizzazione, sarebbero in grado di usare la crisi corrente come opportunità per cavalcare questo tsunami economico che rischia di sommergere tutti i paesi, e riemergere più forti di Europa e Usa. Un anziano e distinto gentiluomo, all'apparenza eminente, nel corso di un'affollata conferenza a Berlino, è stato ancora più perentorio: "Cina e India hanno tratto profitto della crisi economica che ha colpito l'Asia nel 1997-1998, e ora beneficeranno di questa crisi globale alle spese dei loro vicini". Un altro partecipante ha espresso più o meno lo stesso concetto: "Quei paesi (Cina e India) non sono poveri, sono pieni di miliardari, 4 tra le prime 10 persone più ricche del mondo vengono da là, e nonostante tutto si lamentano di noi e nello stesso tempo ci domandano assistenza".
Queste non sono ovviamente posizioni politicamente corrette, né rappresentano la maggioranza delle opinioni, e tra l'altro sono state contestate da altri partecipanti alle conferenze in questione. Nella loro assoluta franchezza però danno un'idea di quanto siano diffuse e sotterranee queste percezioni. Non si tratta solo di spostamenti nell'equilibrio economico e geopolitico.
Persino tra le persone più progressiste in Europa esiste una paura palpabile, alcune volte inespressa o espressa solo in argomentazioni molto sottili e sofisticate, che la crescita dei consumi tra quella larga fetta delle popolazioni del mondo eserciterà una pressione insostenibile sulle risorse globali e di conseguenza non va assolutamente essere favorita.
C'è una parte di verità in questo: non c'è dubbio che gli attuali standard di vita del nord del mondo non sarebbero sostenibili se dovessero diventare accessibili a ogni abitante di questo pianeta. Ciò implica che la crescita futura dei paesi in via di sviluppo debba seguire un percorso di produzione e consumo più equo e cosciente. Ma ciò si scontra duramente con il problema di fondo.
Perché anche se le élites e la classe media nei paesi in via di sviluppo, in particolare Cina e India, cessassero d'improvviso di aumentare i loro consumi e si limitassero a portare la maggior parte delle popolazioni a qualcosa di simile a un accettabile standard di vita minimo, ciò implicherebbe un uso estensivo di risorse globali, e sarebbe inevitabile un maggior uso di risorse naturali e l'aumento delle emissioni inquinanti.
Dunque la dura realtà è che il mondo sviluppato deve, nella sua totalità, consumare meno risorse naturali e ridurre il suo contributo al riscaldamento globale. Ciò a sua volta ha effetto sulle entrate economiche. Non è assolutamente chiaro come mai dei paesi in calo demografico debbano incrementare il loro prodotto interno lordo; perché non dovrebbero orientarsi invece verso la redistribuzione interna e il cambiamento degli stili di vita, cose che potrebbero di fatto migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini.
La crisi corrente è un'eccellente, forse unica, opportunità per portare a un cambiamento nelle aspirazioni socialmente indotte e nei bisogni materiali, e riorganizzare la vita economica dei paesi sviluppati in modo meno rapace e più sostenibile.
Purtoppo questo tipo di messaggio non ha avuto ascolto, almeno tra i decisori politici dei principali paesi capitalistici. Negli Stati uniti, perfino la blandamente ecologista amministrazione Obama parla solo di promuovere "tecnologie più pulite e più rispettose dell'ambiente " invece di fare cessare assurdi sprechi e dispendiosissimi ordini di consumo.
Ad esempio le strategie di trasporto restano fondate sull'eccessivo affidamento all'auto privata piuttosto che su un più estensivo ed efficiente trasporto pubblico. Anche in Europa l'interesse si rivolge verso la rivitalizzazione di vecchie e superate maniere di consumare.
In Italia Silvio Berlusconi ha appena esortato la popolazione a non cambiare i propri stili di vita a causa della crisi, in quanto ciò ridurrebbe immediatamente l'attività economica!
Altrimenti detto, questo implica che lo spreco e l'eccessivo consumo sono socialmente desiderabili in quanto quella è l'unica via per preservare l'occupazione. Anche a livello globale, i politici stanno dimostrando la stessa sorprendente mancanza di immaginazione. Tutti gli occhi sono puntati sugli Stati uniti e sulle misure di salvataggio di Obama in quanto, direttamente o indirettamente, la dipendenza dalle esportazioni verso gli Usa è cosi grande che per la maggior parte dei paesi è vista come l'unica maniera di salvarsi economicamente. Ma gli Usa, molto semplicemente, non possono più essere il motore della crescita mondiale a causa del loro enorme debito estero e dell'attuale deficit, - e non è nemmeno desiderabile che continuino a esserlo. Questo crea per le altre economie il bisogno inevitabile e urgente di ridirezionare il proprio commercio e i propri investimenti. Inoltre questo crea una opportunità per gli altri paesi di concepire forme di consumo differenti, più sostenibili e possibilmente più desiderabili. Perché oggi così poche persone, specialmente tra coloro che sono in posizione di influenzare le politiche economiche, sollevano queste questioni piuttosto ovvie?
Quello che non sembriamo realizzare è che, a meno che questi problemi basilari non vengano risolti, non solo marceremo tutti disperatamente verso il mare con l'urgenza dei lemmings, ma continueremo batterci e perfino ucciderci l'un l'altro per avere il privilegio di arrivarci per primi.
(Traduzione G.P. Polloni, Lettera 22)
Jayati Ghosh
Economista, professoressa alla Jawaharlal Nehru University di New Delhi e associata alle Universitá di Tufts e di Cambridge (Gran Bretagna), è la co-fondatrice della Economic Research Foundation, New Delhi. I suoi articoli sono disponibili sulle pagine di Macroscan, sito web della fondazione, e su www.networkideas.org , rete di economisti critici del paradigma neoliberista. E l autrice di "Crisis as conquest: Learning from East Asia" (2001, con C.P. Chandrasekhar) e di "The Market that Failed: A Decade of Neoliberal Economic Reforms in India" (2002).
Una visita in Europa occidentale lo scorso marzo mi ha offerto una visione lievemente diversa, e un pò inquietante, circa lo svolgersi degli avvenimenti economici e delle loro coordinate.
Quando una crisi si sviluppa, in ogni parte del mondo ci si interroga sulle attuali istituzioni economiche - e naturalmente paure, insicurezze e preoccupazioni incidono pesantemente sulla visione del futuro. Le principali domande riguardano le entrate economiche e la distribuzione delle risorse (non succede sempre cosí?), ma in questi tempi di crisi globale le argomentazioni possono diventare piú taglienti e perfino laceranti.
Due sono gli argomenti piú usati pubblicamente.
Il primo consiste in un'animosità, appena o per niente dissimulata, nei riguardi di Cina e India (inevitabilmente associate, nonostante le enormi differenze), indicate come beneficiarie della globalizzazione e voraci divoratrici di risorse globali.
Il secondo rivela una generale incapacitá di concepire una via di uscita dalla crisi attuale che non sia semplicemente replicare il passato, persino quando ció risulti chiaramente insostenibile.
L'atteggiamento europeo nei confronti dell'Asia é stata a lungo caratterizzata da una combinazione variabile di paura e fascinazione, rispetto e repulsione, competizione e colonialismo - come gli studi sull'Orientalismo hanno reso fin troppo evidente.
Ma le percezioni più diffuse oggi sono in qualche modo differenti; nutrite da media sensazionalistici che non hanno tempo o spazio da perdere per dedicarsi alle complessità, si muovono come un pendolo passando dall'idea di un'Asia popolosa terreno di crescita per povertà e terrorismo, a quello di un export aggressivo che grazie al basso costo della mano d'opera, porterà alla crescita del livello di vita di una futura classe media di due miliardi di persone, che fagociterà insostenibilmente le risorse mondiali.
La pura ignoranza può spiegare molte cose.
In Europa, persino nei settori più informati dell'opinione pubblica, quasi non ci si rende conto di quanto la globalizzazione abbia inciso negativamente sulle condizioni di vita e sull'occupazione della maggior parte delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, compresi i paesi asiatici a forte crescita.
La crisi agraria è considerata storia passata, ormai superata dalla crescita dei prezzi dei prodotti agricoli sul mercato mondiale tra il 2002 e la prima parte del 2008, sebbene le entrate degli agricoltori non siano cresciute e le coltivazioni siano sempre meno accessibili nella gran parte dei paesi in via di sviluppo.
A causa del volume dell'esportazione di manufatti asiatici, c'è ancora una diffusa percezione del dirottamento del lavoro manufatturiero dal Nord al Sud - benché l'occupazione manufatturiera sia diminuita nella totalità dei paesi in via di sviluppo, sia a malapena cresciuta nella maggior parte dei paesi asiatici, e sia diminuita dal 1997 in quella che è in genere considerata l'officina del mondo, la Cina.
A Londra, durante un dibattito pubblico, uno dei partecipanti si è chiesto se Cina e India, recentemente arricchitesi per avere sfruttato i processi di globalizzazione, sarebbero in grado di usare la crisi corrente come opportunità per cavalcare questo tsunami economico che rischia di sommergere tutti i paesi, e riemergere più forti di Europa e Usa. Un anziano e distinto gentiluomo, all'apparenza eminente, nel corso di un'affollata conferenza a Berlino, è stato ancora più perentorio: "Cina e India hanno tratto profitto della crisi economica che ha colpito l'Asia nel 1997-1998, e ora beneficeranno di questa crisi globale alle spese dei loro vicini". Un altro partecipante ha espresso più o meno lo stesso concetto: "Quei paesi (Cina e India) non sono poveri, sono pieni di miliardari, 4 tra le prime 10 persone più ricche del mondo vengono da là, e nonostante tutto si lamentano di noi e nello stesso tempo ci domandano assistenza".
Queste non sono ovviamente posizioni politicamente corrette, né rappresentano la maggioranza delle opinioni, e tra l'altro sono state contestate da altri partecipanti alle conferenze in questione. Nella loro assoluta franchezza però danno un'idea di quanto siano diffuse e sotterranee queste percezioni. Non si tratta solo di spostamenti nell'equilibrio economico e geopolitico.
Persino tra le persone più progressiste in Europa esiste una paura palpabile, alcune volte inespressa o espressa solo in argomentazioni molto sottili e sofisticate, che la crescita dei consumi tra quella larga fetta delle popolazioni del mondo eserciterà una pressione insostenibile sulle risorse globali e di conseguenza non va assolutamente essere favorita.
C'è una parte di verità in questo: non c'è dubbio che gli attuali standard di vita del nord del mondo non sarebbero sostenibili se dovessero diventare accessibili a ogni abitante di questo pianeta. Ciò implica che la crescita futura dei paesi in via di sviluppo debba seguire un percorso di produzione e consumo più equo e cosciente. Ma ciò si scontra duramente con il problema di fondo.
Perché anche se le élites e la classe media nei paesi in via di sviluppo, in particolare Cina e India, cessassero d'improvviso di aumentare i loro consumi e si limitassero a portare la maggior parte delle popolazioni a qualcosa di simile a un accettabile standard di vita minimo, ciò implicherebbe un uso estensivo di risorse globali, e sarebbe inevitabile un maggior uso di risorse naturali e l'aumento delle emissioni inquinanti.
Dunque la dura realtà è che il mondo sviluppato deve, nella sua totalità, consumare meno risorse naturali e ridurre il suo contributo al riscaldamento globale. Ciò a sua volta ha effetto sulle entrate economiche. Non è assolutamente chiaro come mai dei paesi in calo demografico debbano incrementare il loro prodotto interno lordo; perché non dovrebbero orientarsi invece verso la redistribuzione interna e il cambiamento degli stili di vita, cose che potrebbero di fatto migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini.
La crisi corrente è un'eccellente, forse unica, opportunità per portare a un cambiamento nelle aspirazioni socialmente indotte e nei bisogni materiali, e riorganizzare la vita economica dei paesi sviluppati in modo meno rapace e più sostenibile.
Purtoppo questo tipo di messaggio non ha avuto ascolto, almeno tra i decisori politici dei principali paesi capitalistici. Negli Stati uniti, perfino la blandamente ecologista amministrazione Obama parla solo di promuovere "tecnologie più pulite e più rispettose dell'ambiente " invece di fare cessare assurdi sprechi e dispendiosissimi ordini di consumo.
Ad esempio le strategie di trasporto restano fondate sull'eccessivo affidamento all'auto privata piuttosto che su un più estensivo ed efficiente trasporto pubblico. Anche in Europa l'interesse si rivolge verso la rivitalizzazione di vecchie e superate maniere di consumare.
In Italia Silvio Berlusconi ha appena esortato la popolazione a non cambiare i propri stili di vita a causa della crisi, in quanto ciò ridurrebbe immediatamente l'attività economica!
Altrimenti detto, questo implica che lo spreco e l'eccessivo consumo sono socialmente desiderabili in quanto quella è l'unica via per preservare l'occupazione. Anche a livello globale, i politici stanno dimostrando la stessa sorprendente mancanza di immaginazione. Tutti gli occhi sono puntati sugli Stati uniti e sulle misure di salvataggio di Obama in quanto, direttamente o indirettamente, la dipendenza dalle esportazioni verso gli Usa è cosi grande che per la maggior parte dei paesi è vista come l'unica maniera di salvarsi economicamente. Ma gli Usa, molto semplicemente, non possono più essere il motore della crescita mondiale a causa del loro enorme debito estero e dell'attuale deficit, - e non è nemmeno desiderabile che continuino a esserlo. Questo crea per le altre economie il bisogno inevitabile e urgente di ridirezionare il proprio commercio e i propri investimenti. Inoltre questo crea una opportunità per gli altri paesi di concepire forme di consumo differenti, più sostenibili e possibilmente più desiderabili. Perché oggi così poche persone, specialmente tra coloro che sono in posizione di influenzare le politiche economiche, sollevano queste questioni piuttosto ovvie?
Quello che non sembriamo realizzare è che, a meno che questi problemi basilari non vengano risolti, non solo marceremo tutti disperatamente verso il mare con l'urgenza dei lemmings, ma continueremo batterci e perfino ucciderci l'un l'altro per avere il privilegio di arrivarci per primi.
(Traduzione G.P. Polloni, Lettera 22)
Jayati Ghosh
Economista, professoressa alla Jawaharlal Nehru University di New Delhi e associata alle Universitá di Tufts e di Cambridge (Gran Bretagna), è la co-fondatrice della Economic Research Foundation, New Delhi. I suoi articoli sono disponibili sulle pagine di Macroscan, sito web della fondazione, e su www.networkideas.org , rete di economisti critici del paradigma neoliberista. E l autrice di "Crisis as conquest: Learning from East Asia" (2001, con C.P. Chandrasekhar) e di "The Market that Failed: A Decade of Neoliberal Economic Reforms in India" (2002).