I due tredicenni pistoiesi che hanno confessato di essere stati gli autori degli insulti e degli spari (a salve) esplosi contro il giovane gambiano giovedì scorso nei pressi della parrocchia di Vicofaro, raccontano molto di noi: ci spiegano dove stiamo sbagliando e tutto ciò che non dovremmo mai fare. Gli adolescenti a quell'età assomigliano a cartine di tornasole, non tanto perché gli adulti che avrebbero dovuto educarli hanno tagliato la corda, si sono eclissati, oppure, peggio ancora, sono stati davanti a loro come pupazzi. Queste diserzioni sono clamorose, ma non bastano a comprendere la crisi che viviamo. La situazione è assai più grave e chiama in causa i valori civili, sociali e morali che stiamo consegnando ai nostri figli: negli anni abbiamo costruito un mondo finto dove ogni desiderio sembra poter essere esaudito e chi commette un danno si crede in diritto di non pagare il prezzo del risarcimento.
Questi discoli, chiamiamoli così, in quanto non ancora quattordicenni, sono stati riconsegnati alle rispettive famiglie, ma noi ci dovremmo mettere in testa che la non punibilità giuridica dei piccoli monelli ci riguarda nel profondo, assai più di quanto sarebbe se i responsabili fossero adulti già in galera. Penso alle reazioni che, dopo certi fatti accaduti negli ultimi tempi, abbiamo registrato.
Tiro al bersaglio sul migrante? Giochi di ragazzi. Lanci di uova contro la campionessa nera?
Goliardate. Attacchi ai rom? Strumentalizzazioni. Ci siamo invischiati in surreali discussioni su razzismo sì o razzismo no, come se tali distinzioni aggiungessero elementi essenziali al dibattito, senza renderci conto del mostro che stiamo allevando: un coacervo di individualismo, indifferenza, ipocrisia, egoismo, stupidità camuffato, nemmeno troppo bene, da vitalismo euforico e consumistico.
Cosa possiamo fare? La classe politica, schiava del consenso, almeno in questa fase sembra amorfa, incapace di offrire strade alternative: nessuna indicazione su quali dovrebbero essere i temi condivisi, la vegetazione culturale in grado di progettare i modi di stare insieme. La famiglia, anche se per fortuna esistono sempre genitori attenti e premurosi, sta attraversando una tempesta identitaria. La scuola pare più concentrata a valutare le competenze degli alunni piuttosto che a favorire i processi conoscitivi delle future generazioni. Gli intellettuali sembrano sotto scacco perché la rivoluzione informatica, evidenziando ogni intervento, tende a mettere sullo stesso piano qualsiasi opinione, come se tutti avessero la medesima legittimità per parlare. Anche la Chiesa, non essendo un’isola staccata dal mondo, è combattuta fra l’ideale, siamo in molti a considerarlo magnifico, dell’ospedale da campo propugnato dal Papa e la sensibilità storica e istituzionale dei suoi organismi.
Ecco perché il Sinodo dei giovani è così importante: se tutti i pellegrini che sabato confluiranno al Circo Massimo si trasformassero, una volta tornati a casa, in avanguardie etiche capaci di coinvolgere i loro coetanei meno motivati o forse semplicemente più soli, allora davvero, voglio sperare, potremmo avere una scossa positiva. A darcela potrebbero essere, paradossalmente, i colpevoli di questi episodi infami.
Mi spiego. Io i due pistoiesi li accompagnerei in Gambia, nazione di provenienza del migrante offeso, in uno sperduto villaggio ai confini col Senegal, Sare Gubu; gli presenterei un ragazzino che porta il mio nome. Tredici anni loro. Tredici anni lui. Si conoscerebbero. Giocherebbero a pallone. Farebbero amicizia. Tutti e tre capirebbero tante cose. I giovani italiani non gli direbbero sporco negro bastardo, come hanno apostrofato il profugo senza sapere chi era. Diventerebbero grandi insieme. E Alì Bubacar Eraldo Affinati magari, in cambio della promessa di poter un giorno venire da noi, sarebbe disposto a dare loro perfino la maglietta di Lionel Messi. Lo so: è soltanto un sogno.
Ma proprio di questo avrebbero bisogno i ragazzi: esperienze vere, non parole vuote.
Fonte: Avvenire venerdì 10 agosto 2018
Segnalato da Antonella Cappè