• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Introduzione a "la pace. realismo di un'utopia"

Pubblicato nuovamente sulla newsletter del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo, vi invitiamo a leggere l'introduzione del libro di padre Ernesto Balducci e Lodovico Grassi "La pace. Realismo di un'utopia", edito da Principato, Milano 1983. Un ottimo libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione più alti e profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e dell'ovest. Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale prospettiva, si fa più serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali è possibile, in ragione della stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civiltà della guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, può essere custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti è antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare acuto agli inizi dell'età moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro l'arte e la natura" ... "e tra le ridde dè suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso di Niccolò Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli è durato fino ad oggi: la tesi degli autori di questo libro è che il tempo in cui siamo rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in sè le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono più gli emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene comune. Com'è noto, il maestro dei realisti affidava alla virtù (che nel suo linguaggio voleva dire abilità conforme a ragione) il compito di far fronte alla fortuna e cioè al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo giudizio, fortuna e virtù potevano governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento primo della virtù di un principe. Uno strumento peraltro da usare all'interno di una preveggenza multiforme delle eventualità della fortuna. "Assomiglio quella - dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap. XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano è piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, senza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe nè sì licenzioso nè sì dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare è il fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "città" affidata al principe oggi è, secondo la "verità effettuale", vorremmo dire materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all'imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico, legato cioè a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano, anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.

Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanità è entrata in un tempo nuovo nel momento stesso in cui si è trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non è avvenuta e noi siamo vivi! Non è forse vero che l'abisso si è spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si può già dire, con fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui è facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verità contenuta in quel messaggio è che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verità intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si è dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione più recente e più organica è quella del Rapporto Brandt. L'unità del genere umano è ormai una verità economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non è il Sud a dipendere dal Nord ma è il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco è resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud è sottoposto e poi, più specificamente, perché esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E più comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non è un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioè 10 volte di più del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno più la coscienza tranquilla.
La seconda verità di Hiroshima è che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, è arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressività distruttiva. Fino ad oggi è stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura è un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualità.
La terza verità di Hiroshima è che la guerra è uscita per sempre dalla sfera della razionalità. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioè come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento.

Queste tre verità non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella pratica politica ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano è anch'esso di tipo nuovo, non in continuità con quello tradizionale. Per pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle correnti ideologiche che, nell'età moderna, hanno posto a fondamento della politica la ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo parlare di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le culture via via dominanti, il cui dogma centrale è sempre stato la inevitabilità della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perché ebbe le sue prime manifestazioni nell'età di Erasmo, ma che potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico più alla moda, radicale. Il suo principio è la tolleranza, il suo nemico è il fanatismo, da quello religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va posata sulla fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su ciò che negli uomini è comune, sulla loro natura razionale, la cui voce è la coscienza. "Voilà l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze. Ciò che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo impianto individualistico, è la disponibilità al confronto e soprattutto la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro capacità, almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di fornirgli strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perché esso è stato sempre un pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente sulle cause che generano i conflitti interni ed esterni alla società. Il principio della tolleranza è senza dubbio necessario a dar fondamento a una società pacifica, purché però venga coniugato con una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene comune e della pace.
È questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la formula ideologica che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la fondazione della pace con l'esercizio effettivo della sovranità popolare. I popoli amano la pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperità, la libertà coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi, rovine, servitù militari. Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo, una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranità, rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra essa ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson che tenne a battesimo la Società delle Nazioni. Ma fu proprio nella più democratica delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar, che prosperò e trionfò, col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un paese di sicura democrazia formale come gli USA si è trasformato in una cittadella atomica, alla cui ombra prosperano in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica è che essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo frantumano piegandolo alla loro logica.
La risposta più razionale alla questione della pace sembrava averla data il pacifismo socialista. L'internazionalismo operaio è senza dubbio l'utopia pacifista più straordinaria che sia nata nel mondo moderno. Il suo strumento di lotta, lo sciopero, è stato ed è un'arma non violenta, che ha modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non è stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche quando è stato indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa è strutturalmente connessa alla società capitalistica e che perciò vivrà e morirà con questa. La razionalità della guerra è nel fatto di portare al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar così il suo capovolgimento: la rivoluzione. È quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si è aggravata in questi ultimi tempi, provocando un collasso estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di due ordini. Là dove si ritiene di aver già realizzato il socialismo, non solo si è messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica socialista all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese della repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla logica del capitale, c'è attualmente lo stato di all'erta: segno, per molti, che le cause della guerra non sono riducibili all'economia di mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista è contraddetta almeno da due dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei paesi ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era ancora succube dello schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario storico così imprevisto qual è quello odierno, l'ideologia socialista appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle necessità. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia borghese. Non è forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato è il naturale erede della cultura della borghesia, che è intimamente cultura di violenza? Niente di strano che ben poco sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo proletario. Non è forse vero, ad esempio, che, stretti nel cappio delle necessità del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale, produce armi da esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che, dandosi la necessità, avrebbe potuto anche far uso della violenza delle armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione armata, quando le classi dominanti del sistema imperialistico hanno in mano le armi atomiche?  
Eccoci, così, alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno confusamente, che se ci sarà una reazione all'altezza dell'estremo discrimine in cui siamo, essa non potrà essere più la proposta dei pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredità, ma un mutamento culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine, una volta per sempre, all'età neolitica, tanto per usare un'espressione cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento, non solo della politica, ma dei termini fondamentali della presenza dell'uomo alla storia e al mondo, e cioè la richiesta del passaggio da una civiltà che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad una civiltà che ponga la sua radice nell'altra valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarietà con l'intera specie come condizione del suo essere persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c'è anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano più bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. È vero: la civiltà (ma questa parola ora la pronunciamo con più pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civiltà e guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra è una legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie quello che poi si è scoperto essere niente più che un portato della cultura. Ad esempio, la schiavitù. L'opinione comune, fino a due secoli fa, era che la schiavitù fosse un'esigenza naturale della società umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitù ci ripugna. E così: appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale è la natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto italiano è stata sancita la parità dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'è stata l'età della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civiltà della guerra, la civiltà della pace?  È vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle cose non può non portare alla previsione della catastrofe. Ma ciò che è improbabile, non per questo è impossibile. La paleontologia dimostra che la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalità (quella fatalità che invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani, può incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o può diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica città che è ormai il nostro pianeta.
Per la prima volta questa utopia è diventata realistica, sia nel senso che essa è per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa è l'unica alternativa alla morte universale Quel che le manca è, appunto, una cultura che sia al suo livello, cioè, come si è detto, al livello della voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla cultura della guerra di cui noi siamo figli, così come alla cultura paleolitica successe, più di diecimila anni fa, la cultura neolitica che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
È vero, il tempo è breve, così breve che è già un grave obbligo adoperarsi perché non sia accorciato. Ed è questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa chiama in causa la società in tutte le sue articolazioni organiche, anzi - non dovremmo aver paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'è una virtù che non può essere insegnata: è la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell'uomo non è in regola con i rigori della ragione, perché è appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a nient'altro è intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le forme nel futuro, è proprio questa ragione il primo bersaglio della fede morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede, quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!  La fede morale non è più un semplice postulato, un'esigenza cioè senza riscontro nei fatti. Essa ha già dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si assume la civiltà della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civiltà della guerra. La prima di queste premesse è che l'uomo sia per natura aggressivo, di quell'aggressività distruttiva che noi chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto ad un punto in cui non ha più senso dire che l'uomo è per natura pacifico o che l'uomo è per natura violento. La natura dell'uomo è nel suo farsi, è cioè nella sua cultura. Come dire che l'uomo è così come si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella società cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana è fisicamente come un individuo solo, secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con la coscienza ancora dispersa e frazionata nel suo organismo, ma con strutture fisiche e psichiche già pronte perché avvenga l'unificazione soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, più ancora, quella Nord/Sud, sono sempre più intollerabili: chi le tollera è un ominide il cui sottosviluppo è insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli ominidi, il tempo della fine è già segnato, perché la loro egemonia è diventata fisicamente impossibile. Il colosso della civiltà della tecnica - il Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si accorge che il padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo del padrone è finito, ed è finita la sua cultura. Il padrone può morire come Sansone o può morire di tranquilla morte naturale, e cioè il Nord può morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o può morire risolvendosi in una comunità mondiale senza più discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non può più essere quello che è stato, non lo può più per ragioni fisiche. L'ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi fautori. Già si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la natura che non è quello alienante del romanticismo, è un rapporto su cui batte la luce dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura umanizzata. La passione ecologica è un capitolo importante della cultura della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (è proprio il caso di dirlo) della violenza è il modo storico in cui si è determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio della sessualità quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarità. L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della sessualità, segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa soggettività umana. L'"altra metà del cielo", anzi l'altra metà della terra, a partire dall'età neolitica, è stata mantenuta con violenza al di fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico è un uomo dimidiato e proprio per questo violento. L'emancipazione femminile è potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse più rilevante, che dà conforto alla fede nell'uomo, è la nuova dialettica che si è aperta all'interno delle grandi religioni. Possiamo limitarci, e non solo per brevità, al cristianesimo. La soglia atomica, come si è detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere umano, è di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della vita trionferà, essa non potrà andare che nel senso di una composizione unitaria del genere umano. Il che significa che tutto ciò che è nato e cresciuto con i segni del "particolare" potrà sopravvivere solo se saprà accettare le nuove misure di universalità concreta. Alla pari delle altre religioni, il cristianesimo non potrà non apparire (e già appare) come il patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel bene e nel male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che è connesso alla relatività storico-geografica e, nello stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha questo di proprio e forse di esclusivo: che è una profezia messianica, investe cioè la totalità delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo senso il cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualità laica della storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre confessioni che fanno capo al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando l'asse della propria vita interna o della propria missione storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo è già in atto. Morendo alle sue terribili stagioni di complicità con le guerre, il cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di fondo, che è la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la transizione alla civiltà della pace è come un appuntamento storico che Dio ha loro fissato e su cui le giudicherà. Una chiesa veramente evangelica è come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici istituzionali, che sono più tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora un pesante conto da pagare alla civiltà della pace, si sentono sospinte sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo alcuni, è già matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo messaggio al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la responsabilità della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento della civiltà della pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando un'indagine commissionata dall'Unesco, riconosceva che la crisi della scuola era un dato evidente in ogni parte del mondo e osava affermare che, alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione borghese e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati, è sempre stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioè l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio particolare per l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione colonialistica per la diffusione della civiltà. Ma l'occhio fiero del padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi, finalmente, l'occhio umile non c'è più. Le barriere, almeno dal punto di vista conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura può ormai provocare un'eco veramente umana nelle coscienze se non è cultura planetaria, e cioè se il suo punto di vista non è il punto di vista del pianeta divenuto l'indivisibile città dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve essere cultura di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base della crisi della scuola è proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola è ancora un organo di diffusione della cultura padronale che è, per forza di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno semplici palliativi finché non scenderanno a questa profondità, per mettere in questione il presupposto antropologico che ha fatto da dogma latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace.

Uno dei modi con cui la scuola può inserirsi, con efficacia decisiva, in quei processi è la costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria storica diversa da quella codificata nel sapere dominante. Ed è un compito che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico che abbiamo ricevuto in eredità. Tutto ciò che, in questo patrimonio, era riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini come ingenuo o poeticamente evasivo. È razionale solo ciò che è reale: ecco il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve normalmente per indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco più che interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civiltà. La "verità effettuale" è diversa. È diversa non solo nell'animo e nel costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano piuttosto oggetti che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui è solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
È appunto di questo secondo aspetto della verità effettuale che la presente rassegna intende offrire una larga documentazione critica. Il panorama che essa offre è di necessità limitato, nel tempo e nello spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico, l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta, salvo qualche sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perché è in quest'area che la civiltà della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste pagine sempre in un rapporto dialettico con la realtà della guerra e appare sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo oggi, nell'era di Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessità realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a questo singolare evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla fin da questa lunga premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realtà su cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo strumento che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere, all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il più alto, il più universale e, sia permesso di dire, il più religioso tra quelli che fanno ancora della scuola l'occasione più importante per la formazione dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino a colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre più adatto ad illuminare e ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo