• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

I giovani e la Shoah (Anna Bravo, Fabio Levi)


Pubblicato su "La domenica della nonviolenza", n. 148 del 27 gennaio 2008
Riportiamo questi brevi contributi di Fabio Levi e Anna Bravo sul rapporto tra i giovani e la Shoah, tema quanto mai importante, che investe il costruire il nostro futuro senza smarrire la memoria Il 2 dicembre 1999, si è tenuta a Torino una giornata di studio su un'indagine condotta tra duecento allievi del primo anno del Corso di laurea in Scienza delle comunicazioni di Torino. Il questionario, pubblicato nel volume a cura di Fabio Levi, I ventenni e lo sterminio degli ebrei, Silvio Zamorani editore, si proponeva di toccare questioni diverse. Parte delle domande sono state pensate nell'intento di raccogliere innanzitutto qualche informazione sulle caratteristiche del gruppo cui si rivolgeva; altre avevano l'obiettivo di misurare il grado di conoscenza dei fatti, al fine di operare qualche verifica mirata, ad esempio cosa sanno i ventenni di oggi riguardo al numero di ebrei annientati, o ancora su quello che accadde in Italia; nello stesso tempo si voleva indagare sulla presenza di eventuali stereotipi più o meno radicati, in particolare sull'immagine degli ebrei di fronte alle persecuzioni naziste. Un terzo gruppo di domande aveva invece lo scopo di delineare un quadro delle fonti attraverso le quali si è diffusa tra i ragazzi intervistati la conoscenza dello sterminio e la consapevolezza della sua importanza. Le domande che aprivano il questionario avevano infine l'obiettivo di valutare quale fosse l'idea d'insieme che ognuno aveva dello sterminio, valutando più in particolare quale fosse il peso delle componenti emotive sulla capacità di articolare precisi interrogativi. Seguono gli interventi di Fabio Levi e Anna Bravo.
L'intervento di Fabio Levi

Vorrei prima di tutto spiegare come è nato e che cos'è il libro di cui stiamo discutendo. Alla prima lezione di uno dei corsi di Storia contemporanea dell'anno scorso alla Facoltà di Lettere di Torino, i duecento studenti presenti hanno tutti risposto a un questionario su vari aspetti dello sterminio degli ebrei negli anni della seconda guerra mondiale. Poi un gruppo di loro, insieme al docente, ha trascritto le risposte, riflettendo sul loro significato, ma soprattutto cercando di trovare un modo per riproporle agli altri in forma organizzata e comprensibile. È nato così un libro che, composto e stampato in tempi strettissimi, è stato distribuito e discusso all'ultima lezione.
Il libro voleva essere una sorta di specchio: intendeva cioè offrire a tutti quelli che avevano compilato il questionario la possibilità di rispecchiarsi nelle risposte degli altri, ma anche di misurare il proprio atteggiamento, così come era maturato nel corso del semestre, su quello della prima lezione. Lo stesso potranno fare coloro i quali, in altre scuole e in altre situazioni, avranno occasione di rispondere alle stesse domande.
Potranno confrontare il proprio punto di vista con quello del gruppo che ha realizzato il libro: un gruppo peraltro con caratteristiche assai particolari, trattandosi di studenti quasi tutti ventenni, in grande maggioranza provenienti dai licei e iscritti a un corso di laurea fra i più ambiti dagli studenti in questo momento: quello di Scienze della comunicazione.
Dicevo che il libro di cui ci stiamo occupando è una sorta di specchio, ma è anche a mio avviso un ricchissimo caleidoscopio di immagini, idee, giudizi e, proprio per questo, di informazioni sui ragazzi che hanno risposto al questionario. Prima però di proporre qualsiasi valutazione nel merito penso valga la pena chiederci quale debba essere l'atteggiamento più giusto da assumere nei confronti delle innumerevoli risposte riportate via via nelle pagine del volume; o, meglio ancora, credo sia il caso di riflettere su ciò che non bisogna assolutamente fare esaminando un materiale del genere e, più in generale, quando si affronta il tema dello sterminio nazista in un'aula scolastica.
Senza alcun dubbio la prima cosa da non fare è scandalizzarsi per gli errori più o meno consistenti commessi dai nostri interlocutori nel rappresentare quello che è successo, o per le loro difficoltà a porre i vari problemi in modo adeguato. Un atteggiamento del genere non solo è sbagliato, ma molto controproducente. Nel nostro caso poi si rischierebbe di sottovalutare un grado di informazione e anche una capacità di esprimersi e di ragionare tutt'altro che trascurabili. Dobbiamo saper riconoscere ai più giovani di noi, nel nostro caso ai ventenni appena iscritti all'università, il diritto di non sapere. Oltre tutto, se non sanno, la responsabilità è prima di tutto nostra: degli insegnanti o degli studiosi cioè che, ad esempio, compilano molto spesso manuali di storia imprecisi e deludenti.
Non è meno sbagliato spaventarsi oltre misura di fronte ad affermazioni o giudizi che non condividiamo o che giudichiamo pericolosi. Nel libro si notano ad esempio pregiudizi assai diffusi e radicati nei confronti degli ebrei; ma non solo. Di pregiudizi ce ne sono tanti, su molte cose: e prese di posizione unilaterali e rigide si presentano spesso quando meno ce le aspettiamo, in forma quasi automatica. In proposito è utile ricordare che Primo Levi, nei suoi innumerevoli incontri nelle scuole sulla deportazione e sui lager, di fronte a qualunque domanda, a qualunque atteggiamento degli studenti che aveva di fronte, mai mostrava di scandalizzarsi; anzi, puntava ogni volta al dialogo e cercava sempre di rispondere. Anche in questo vale la pena raccogliere la lezione che ci ha lasciato.
Un terzo atteggiamento assolutamente da evitare è quello di chi, ancor prima di raccontare, fa sentire in colpa i suoi interlocutori. Comportarsi in quel modo, soprattutto su temi come lo sterminio nazista, è forse la cosa peggiore. I sensi di colpa chiudono invece di aprire, allontanano invece di avvicinare e impediscono oltre al dialogo anche il ragionamento. E allora che altro resta da fare? Credo che forse la cosa più utile sia di scoprire, attraverso un lavoro di scavo, di analisi minuziosa, in atteggiamenti e giudizi come quelli manifestati nel libro, le contraddizioni, le linee di frattura che li attraversano. Si tratta di scoprirle e subito dopo di renderle evidenti agli occhi di chi quelle contraddizioni ha espresso. In tal modo è più facile sollecitare l'interesse di chi abbiamo di fronte e anche una sua partecipazione attiva alla discussione. Proprio in questa logica vorrei cercare ora di individuare quali sono secondo me alcune delle contraddizioni più evidenti che emergono dalle risposte contenute nel libro. Nello stesso tempo cercherò anche di fornire, in modo molto sommario, quasi telegrafico, alcune indicazioni su come, a mio avviso, sia possibile intervenire per sviluppare lo studio e il dialogo.
Vediamo la prima. Le risposte al questionario fanno chiaramente vedere come lo sterminio non cessi di suscitare anche nei giovani di oggi emozioni profondissime, emozioni tali da impedire o da bloccare sul nascere quel tanto di riflessione che pure - e qui sta a mio avviso la contraddizione - molti mostrano di voler avviare, sulla base di una considerazione attenta di quanto è successo. Come comportarsi di fronte a tutto questo? Credo che in primo luogo si debba fare di tutto per riferire le emozioni a dei fatti precisi, uscendo dalla genericità, e in tal modo cercare di governarle. Ma non solo: può anche essere utile ragionare proprio prendendo spunto da quelle emozioni; ragionare a partire da se stessi, riflettendo sul proprio atteggiamento nei confronti di una realtà tanto sconvolgente. L'obiettivo principale dovrebbe infatti essere, a mio avviso, di saper andare oltre la semplice reazione emotiva e arrivare, se non a rispondere, quanto meno a formulare delle domande più precise e circostanziate. Non penso assolutamente che valga la pena alimentare ulteriormente la reazione emotiva dei soggetti cui ci si rivolge, credo anzi che si debba fare esattamente il contrario.
Seconda contraddizione: se leggiamo le risposte alla domanda "Quale immagine ti viene in mente quando pensi allo sterminio degli ebrei?", si presenta ai nostri occhi un paesaggio desolato e immobile, irrigidito dalla morte; si vedono i campi come si pensa fossero allora o come sono oggi, bloccati in un universo senza tempo; la scena è dominata da oggetti inanimati e da corpi devastati. Su tutto questo si innesta però un flebile residuo di vita rappresentato quasi soltanto dal muoversi lento ed esausto di chi non è ancora stato spazzato via. Anche questa contraddizione va rilevata, resa esplicita e affrontata adeguatamente. In particolare credo vada contrastata un'idea dello sterminio come frutto quasi necessario di un meccanismo perverso, inarrestabile, e mosso da una forza indipendente dalla volontà degli uomini. Esso va viceversa ricondotto sempre e ogni volta all'uomo e cioè alle diverse figure che allora vi furono coinvolte: a quelle delle vittime in primo luogo, ma anche alle figure dei carnefici e degli spettatori. Senza ovviamente negare la sostanza dello sterminio, che è una sostanza di morte, bisogna però evitare di averne una visione irrigidita e meccanica, che trascuri ogni riferimento alla coscienza e alla volontà degli individui.
Bisogna insomma evitare che lo sterminio continui ad agire su di noi condizionando ancora oggi anche il nostro modo di considerarlo.
Ed eccoci ora ad una terza questione. C'è nelle risposte al questionario una evidente difficoltà a collocare lo sterminio nazista nella storia.
Prevale la tendenza a guardare alla realtà di quel periodo come a una realtà popolata di simboli. Anche i lager molto spesso diventano un simbolo astratto. In particolare le camere a gas, i crematori o i treni assurgono a simboli per eccellenza dello sterminio. Non sono descritti come luoghi reali o lo sono a mio avviso in modo molto sommario. Anzi, i dati più propriamente realistici, laddove sono presenti, invece di dare concretezza alla rappresentazione, molto spesso sono là più che altro per esaltare la natura parossistica ed estrema di quei simboli. E questo vale anche per i personaggi: Hitler per molti è il simbolo dello sterminatore, non è Hitler. D'altra parte però c'è la tendenza nelle risposte a considerare lo sterminio come un evento che deve poter essere paragonato ad altri. Per questa via torna così ad essere collocato nel corso della storia, di una storia lunga migliaia di anni, perché - senza togliere nulla a fatti più recenti come le eliminazioni di massa compiute dai regimi comunisti o le "pulizie etniche" nella ex-Jugoslavia, citati in molte risposte - solo sul tempo lungo pare possibile trovare eventi così terribili da poter reggere il confronto con le gesta dei nazisti. Come affrontare a questo punto la contraddizione fra la difficoltà a storicizzare da un lato e dall'altro invece la tendenza ad assumere lo sterminio come un fatto della storia? Credo che in primo luogo si tratti di fare un grosso sforzo per dare concretezza ai soggetti e alle situazioni connessi a quella vicenda, per andare oltre una rappresentazione puramente simbolica, raccogliendo nello stesso tempo la disponibilità a confrontare fra loro situazioni anche molto diverse e lontane nel tempo.
E ancora: c'è una contraddizione evidente tra i forti pregiudizi che emergono dalle risposte in particolare riguardo agli ebrei e, viceversa, la grande disponibilità, la grande apertura, il grande rispetto nei confronti degli altri che risultano non solo dal senso di molte delle risposte riportate nel libro, ma anche dall'atteggiamento tenuto durante tutto il corso dalla generalità dei ragazzi coinvolti. Per esempio, all'ultima lezione, molti, e non certo per far piacere al docente ma perché ne erano intimamente convinti, hanno riconosciuto senza remore che molte delle risposte date al questionario erano state condizionate da pregiudizi riproposti in forma largamente inconsapevole.
Alcuni si sono alzati e hanno detto: "Adesso non risponderei più così, risponderei in un altro modo". Si tratta ovviamente di intervenire anche su questa contraddizione, ma non esclusivamente sulla base di un ragionamento morale, proclamando magari come indiscutibile un generico rispetto dell'altro. Si tratta invece prima di tutto di isolare e di individuare i pregiudizi, di farne risaltare la rigidità, di ricostruirne la storia, scavando al loro interno, mettendone in luce tutta la loro forza, ma anche la debolezza. Accettandone tuttavia l'indiscutibile utilità: tutti noi ragioniamo sulla base di pre-giudizi nel tentativo di fermare la realtà nella nostra mente e di formulare una prima interpretazione di quanto abbiamo intorno. Il problema è essere consapevoli che non bisogna rimanere schiavi dei pregiudizi e che quando è il caso quei pregiudizi vanno discussi e criticati. Colpisce poi il contrasto fra la grande fiducia dimostrata nelle risposte al questionario nel valore rigeneratore della conoscenza - in tanti hanno ribadito con convinzione che bisogna far conoscere lo sterminio, che bisogna fornire un'informazione precisa e documentata e così via - e, viceversa, una consapevolezza piuttosto parziale e limitata del fatto che la conoscenza non basta, che non solo si deve informare, ma bisogna - come segnalano alcuni - "sensibilizzare", "formare", "educare".
In questo caso credo che il modo più semplice per affrontare la questione sia di dimostrare che il male compiuto dai nazisti non era un male primitivo ma grondava cultura, era un male che nasceva da una cultura evoluta, la cultura del nostro tempo.
Rimangono infine altri due punti importanti. Il primo è dato dalla contraddizione tra il forte senso di giustizia che emana dalle risposte al questionario e dall'altra la percezione dell'impotenza della Giustizia di fronte a crimini di quella portata. Qui penso si debba saper mostrare come il male si alimenti molto spesso di interessi di basso profilo, di paure banali. Il male, anche quello molto grande, ha in realtà le sue origini, le sue radici nel molto piccolo, nella vita quotidiana, nelle azioni all'apparenza irrilevanti di tutti i giorni. È su quel terreno che si deve indagare e anche, dove necessario, agire. I grandi principi, se non sanno calarsi nella realtà di tutti i giorni, non valgono assolutamente nulla.
L'ultima considerazione riguarda il forte interesse specifico nei confronti dello sterminio che risulta dalle risposte al questionario e più in generale dalla grande disponibilità con cui oggi viene accolto un corso su un tale argomento; insieme a questo però la presenza, dietro e dentro quell'interesse, di motivazioni che rinviano a tante altre cose, non sempre così chiare. Molto spesso ansie, paure, preoccupazioni frutto della realtà attuale vengono in vario modo proiettate su quel tema specifico e contribuiscono a caricarlo di significati ulteriori. E qui vorrei proporre un'unica citazione che mi ha colpito in modo particolare. Dice una delle risposte alla domanda sui sentimenti suscitati dal pensiero dello sterminio: "Paura di essere influenzata, plagiata, ingannata da altri individui, paura delle decisioni di massa e di non pensare e agire autonomamente". Mi sembra una risposta molto eloquente, che richiama situazioni e problemi molto vicini a noi, di fronte alla quale - come pure di fronte a tante altre - si tratta sì di parlare dello sterminio in modo sistematico e rispettando tutte le indicazioni cui si è appena accennato. Ma senza trascurare il resto, senza rinunciare a individuare le innumerevoli domande e sollecitazioni derivanti dalla realtà di oggi che attribuiscono tanta maggiore attualità a quell'argomento in particolare. Oltre a questo, bisogna cercare di capire come si realizzano quei fenomeni di proiezione, per quali ragioni, in quali condizioni specifiche. Il tema di cui stiamo discutendo va collocato ogni volta in un contesto più ampio che comprende fra le altre cose la vita, la realtà quotidiana delle persone che abbiamo di fronte.
Mi avvio ora alla conclusione. Molto spesso ci si lamenta di una diffusa tendenza ad appiattire la storia e si attribuisce la responsabilità di tutto questo in primo luogo ai mezzi di comunicazione di massa che, rimescolando in modo disordinato i fatti del passato e del presente finirebbero per cancellare ogni distinzione di tempo, di spazio, di rilevanza e così via.
Riguardo allo sterminio nazista una qualche forma di appiattimento o, meglio, una sorta di corto circuito tra passato e presente risulta evidente anche in molte risposte pubblicate nel libro di cui stiamo discutendo. Ma, oltre a ricondurre tale fenomeno alle condizioni generali che tendono a determinare il modo in cui oggi si guarda alla storia, sarei portato a considerare nel nostro caso un fattore specifico e ulteriore. È l'enormità dello sterminio che finisce per pesare fortemente sul presente, per ridurre la distanza tra quel passato e il nostro presente, facendo appello innanzitutto alla nostra sensibilità. Non senza che sia però necessario misurarsi con un tale problema. Credo anzi che si debba fare uno sforzo per recuperare la distanza da quanto è accaduto ormai quasi sessant'anni fa, proprio per poter valutare appieno la dimensione reale, l'importanza e la gravità di quello che è successo. Si tratta insomma di fare quanto bisognerebbe fare sempre quando si studia la storia: da un lato lasciarsi coinvolgere dalla realtà che si sta considerando, per partecipare anche emotivamente a quanto è accaduto nel passato, ma nello stesso tempo tentare di ricondurre quella realtà al contesto particolare del periodo per analizzarla meglio, per avviare utili confronti, per andare oltre un approccio puramente empatico e sentimentale. Sapendo però che su certi temi tutto questo è molto più difficile che su altri.

L'intervento di Anna Bravo

Prima di entrare nel merito di due punti che mi hanno colpito in particolare, vorrei dire che questo libro è veramente importante; fa pensare moltissimo anche persone come me che su questo lavorano da vent'anni. Credo che sia dovuto in parte anche al metodo: il questionario aperto o parzialmente aperto, che dà quindi la possibilità di scrivere i propri pensieri, è sicuramente un buon modo per far esprimere la soggettività delle persone. Non c'è bisogno di scrivere sette pagine; a volte, anzi, una scrittura limitata ti costringe a selezionare e diventa anche più significativa. L'altro elemento che mi fa apprezzare questo libro è che i duecento studenti e studentesse che hanno risposto al questionario non sono stati considerati come un campione rappresentativo della loro fascia di età. Ci sono tantissime inchieste sui giovani: se ne scelgono un certo numero secondo criteri statistici e poi si dice: "I giovani pensano così...". Per lo più servono a poco. Quello cui si fa riferimento nel libro era invece un microgruppo con un progetto in comune e una scuola alle spalle di tipo simile, nulla di più. Le parole e le interpretazioni di ragazze e ragazzi non sono state forzate attribuendo loro un significato generale, per dimostrare qualcosa, o, peggio ancora, per prendere chi le aveva espresse come indicatore dei problemi della società. È un secolo che il mondo occidentale si è accorto che ci sono i giovani; quando si affaccia un nuovo problema lo si vuole sempre vedere attraverso la lente del "problema dei giovani", e spesso si proiettano semplicemente i problemi del mondo adulto. I due aspetti appena indicati, oltre all'invito esplicito a nominare le emozioni che sono secondo me una forma molto alta e creativa di conoscenza, danno al libro che stiamo discutendo una forza particolare, ne fanno una risorsa a nostra disposizione: ogni risposta è un'occasione per pensare, per suscitare nuove idee.
Un'altra cosa da dire è che queste studentesse e studenti hanno un'informazione concettuale molto buona. Dieci anni fa alla Facoltà di Magistero avevo fatto un questionario analogo, anche se non così articolato, e ne era emerso che l'informazione era molto più grezza. Qui invece si fa una cosa che gli storici fanno ma che non è detto si debba saper fare a vent'anni: lo sterminio viene collocato su due assi cronologici, riferiti a due aree tematiche diverse. Da un lato la storia dei totalitarismi e in proposito vedo che molti citano anche il totalitarismo sovietico, un dato importante nel quadro interpretativo; dall'altro la storia delle persecuzioni contro gli ebrei, dell'antisemitismo. Si potrebbero individuare anche altri assi temporali e tematici, ma quelli sono fondamentali e ci sono tutti e due. Credo sia anche un effetto della particolare attenzione che si dà a questi temi nelle scuole di Torino. Sul piano delle nozioni riscontro invece la stessa vaghezza che avevo notato dieci anni fa. Di fronte a questo limite mi viene proprio da dire "viva le nozioni", non in generale, ma su questo tema certamente. Se infatti un giorno vi trovate a discutere con qualcuno che non vuole saperne di ammettere quel che è successo, dovete sapere, dovete dire le cose il più possibile vicine a come si sono svolte veramente o a come noi siamo in grado oggi di ricostruirle dal punto di vista storico. Si tratta insomma di acquisire nozioni finalizzate a una concettualizzazione che già c'è, e che rappresenta un'acquisizione veramente importante.
Detto questo, vorrei fermarmi brevemente su due punti. Il primo è già stato enunciato ed evidentemente ha interessato tutti: è quello degli stereotipi. L'ho sperimentato solo pochi giorni fa su di me, con che facilità gli stereotipi entrano in gioco appena smettiamo di pensare. Con che "naturalezza" il nostro vuoto di pensiero viene subito sostituito da un pieno di idee formulate tanto tempo prima, da un pensiero tra virgolette, da un pensiero cristallizzato, morto. Questa è una minaccia continua, non possiamo mai dire: ho fatto la mia lotta contro i pregiudizi e ho vinto, non si vince mai. Vi faccio un esempio ridicolo, visto che faccio la storica. Mi sono trovata, condizionata anche dalla fretta, sul punto di scrivere, parlando della Grande guerra, che gli irredentisti volevano il "ritorno" di Trento e Trieste all'Italia. Mentre si sarebbe dovuto parlare più correttamente di "annessione", anche se non in senso peggiorativo perché c'erano popolazioni non italiane e anche popolazioni italiane. Ma il linguaggio politico e la propaganda di allora usavano il termine "terre irredente" perché non erano "tornate" alla madre patria: di qui la formula del "ritorno di Trento e Trieste". E io stavo scrivendo proprio questa scemenza, perché senza volerlo stavo lasciando spazio al luogo comune tramandato attraverso questi 80 e più anni.
Ho una grande paura della vischiosità dei pregiudizi, del loro potere di manipolare, distorcere. Si dice ad esempio - mi riferisco qui a molte risposte riportate nel libro - che gli ebrei siano particolarmente attaccati alla ricchezza e al potere. È uno dei contenuti più durevoli dello stereotipo, altri sono caduti, per esempio quello diffuso a cavallo tra '800 e '900 della lascivia degli ebrei, del loro essere seduttori, e in quanto tali una minaccia per le famiglie: in quel periodo c'era una vera ossessione sulla sessualità, sulla sanità della stirpe, sull'educazione demografica, un'osssesione supportata dall'opinione di "esperti", di intellettuali, di scienziati che davano veste autorevole agli stereotipi, che alimentavano paure. Agli ebrei veniva anche attribuita la tendenza a non rispettare la legge, programmaticamente, e in proposito venivano accomunati alle donne. Di tutto questo non si parla quasi più.
Invece restano saldi questi contenuti legati al possedere, al contare. Mi chiedo intanto se gli studenti di Roma avrebbero risposto allo stesso modo, perché a Roma chiunque ha esperienza diretta di strati di popolazione ebraica che fanno lavori di non particolare rilievo economico. In fondo un'inchiesta registra sempre dei pregiudizi vecchi adattati a situazioni particolari e anche delle sfumature nuove. Nell'introduzione del libro si dice giustamente che, se il questionario fosse stato proposto dopo che la stampa ha parlato della pulizia etnica in Kosovo, forse le risposte sarebbero state diverse. Ma consideriamo un aspetto interessante dello stereotipi sulla ricchezza.
C'è una risposta sul come gli ebrei avrebbero eventualmente contribuito ad alimentare una diffusa ostilità nei propri confronti, che dice: "molti ebrei erano banchieri". Questa è apparentemente un'enunciazione di fatto, non contiene un giudizio di valore: molti ebrei erano banchieri, punto.
"Molti" cosa vuol dire? Può voler dire il 50% più uno? Abbassiamo il numero; diciamo il 30%. Sembra una stima abbastanza plausibile. Ma gli ebrei in Italia erano 40.000 e allora, se è corretta la frase "molti ebrei erano banchieri", vorrebbe dire che circa 10.000 di loro erano banchieri. Il che è evidentemente una sciocchezza. La frase giusta, libera dal pregiudizio, avrebbe dovuto essere semmai: "molti banchieri erano ebrei". Vedete come il pregiudizio fa dire cose che sembrano innocue e sensate e invece sono insensate e dannose? Se io vengo qui e vi dico: molti ventenni fanno i calciatori professionisti, voi mi dite: ma lei è pazza. Se invece vi dico: molti calciatori professionisti sono ventenni la mia diventa realmente un'enunciazione di fatto. Così funziona il pregiudizio: si scambia il soggetto col predicato in un modo apparentemente innocuo, dopodiché finisce che la frase ha assunto un significato completamente diverso, si è caricata di contenuti ideologici forti. Lo stereotipo è stupido, ma è anche subdolo, ci prende senza che ce ne accorgiamo. Proprio per questo dicevo che sarebbe bello leggere frase per frase questo libro. A volte il pregiudizio è rifiutato con grande nettezza. C'è una risposta che dice degli ebrei negli anni dello sterminio: "se anche fossero stati statue, li avrebbero uccisi lo stesso". Il che vuol dire: non li avrebbero uccisi solo se fossero stati già morti. È un modo questo di alzare una barriera rigidissima per difendersi dalla pervasività del pregiudizio. Passo ora al secondo tema che mi ha colpito di questo lavoro e che attraversa le risposte a diverse domande: quelle sulle cause dello sterminio, sull'atteggiamento di fronte all'ipotetico coetaneo negazionista e sugli antidoti contro una possibile ripetizione dello sterminio.
Cominciamo dalle cause dello sterminio. C'è a volte negli storici la tentazione di spiegare tutto quando invece non tutto si può spiegare; rimane in questa parte di storia, ma anche nella storia in generale, un tanto di enigmaticità che gli storici per primi devono riconoscere. Non possiamo spiegare tutto; devono contribuire altre discipline o forse ci vogliono il romanzo e la poesia, per il tipo di conoscenza che posssono offrire, quella fondata sull'identificazione. Ma veniamo ai nostri problemi. Quando si parla del nazismo c'è anche da fare i conti, come peraltro sottolineano molte risposte al questionario, con l'elemento della follia: Hitler era un pazzo, ci fu un impazzimento collettivo... Io credo che Hitler fosse anche un pazzo, sicuramente, come lo era Stalin, qualcuno ha parlato di personalità paranoiche. Però, se pure la sua pazzia è stata una variabile determinante della storia di quegli anni, ha potuto contare tanto anche perché aveva al suo servizio un apparato enorme. E allora, mi chiedo: da parte di chi sottolinea l'elemento della pazzia, c'è il riconoscimento di questa complessità oppure c'è invece più che altro la paura di ammettere che il male c'è stato, ci può essere, che non è sempre padroneggiabile, che anzi spesso vince? Un interrogativo simile mi pare sia sotteso a una parte dei discorsi che ragazzi e ragazze rivolgono al coetaneo negazionista, e che hanno un'impronta profondamente illuminista. Sembra infatti che informare sia...
Intendiamoci, informare è un dovere, assolutamente e sempre... Però, da certe risposte sembra che l'informazione sia la vera soluzione, sia terapeutica, sia taumaturgica. Non è così. Molti nazisti erano persone di cultura raffinata, intendendo per cultura il sapere molte cose, dell'arte, della scienza o del passato; ma malgrado questo erano nazisti convinti. La cultura, la conoscenza non preservano di per sè dall'accogliere il male, non necessariamente un male demoniaco, ma un male concreto, banale, nel senso in cui ne parla Hannah Arendt.
È così anche per il tema del ricordo come antidoto alla ripetizione dei crimini. Il ricordo è uno degli strumenti più forti, tanto più se passa attraverso delle persone come i nostri amici che hanno testimoniato tante volte e spero tante altre volte vorranno ancora testimoniare in futuro. È importante, è una grande speranza, è una grande possibilità. Ma ricordare non offre di per sè nessuna garanzia. Ci sono persone che ricordano benissimo, ma gli va bene quello che è avvenuto. Ci sono persone o regimi che hanno ricordato e preso a modello le cose peggiori. Lo stesso Hitler si è sentito legittimato a procedere allo sterminio degli ebrei proprio perché ricordava che dalla fine del secolo gli Armeni erano stati vittime di pogrom e nel 1915 di sterminio sistematico, e che tutto questo era rimasto impunito. Tutti avevano dimenticato la distruzione degli Armeni, mentre invece sarebbe stato doveroso ricordare. Hitler però ha ricordato e ha concluso: posso fare quello che voglio perché tanto è già successo con gli Armeni, e nessuno ne parla più. Il ricordo vale solo se c'è autocoscienza, se viene elaborato individualmente e collettivamente.
Ancora un'ultima cosa sui processi di identificazione che emergono nel libro da immagini anche molto belle: c'è ad esempio quella del cappottino rosso ripresa da Schindler's List, che ci ha colpito tutti. Si tratta spesso di immagini che riguardano la singola persona, e non stupisce. In un libro recente di Annette Viewiorka, L'era del testimone, l'autrice racconta i risultati di varie ricerche svolte negli Stati Uniti e in Europa: quello che resta in mente ai lettori e agli spettatori sono le vicende individuali, le storie di vita, e resta in mente quel che viene trasmesso in forma narrativa, ben più che in forma saggistica. Nel libro c'è anche qualcuno che cita Guccini e penso che questo gli sia arrivato da un padre, da una madre, da un insegnante, perché la canzone "Auschwitz" è stata scritta nel '64 ed edita nel '67, quindi... Dicevo di questa forma di identificazione che secondo me è la forma di conoscenza più impegnativa e raffinata: metti una parte di te dentro la vita di un altro, fai entrare la vita di un altro dentro di te. Mi ha emozionato molto sentir dire da voi: "E se fossi stato tu, se fosse successo a te? Scemo!". Mi è venuto in mente però che anche da questo, che pure dobbiamo considerare un dovere, non possiamo mai aspettarci una remunerazione garantita, cioè che l'altro necessariamente capisca, anche perché identificarsi con la vittima a volte è molto difficile. C'è un'ampia letteratura su questo: l'identificazione crea un'angoscia tale che non ce la fai, tieni le distanze. E poi ci sono persone che si identificano con i carnefici; persone che hanno letto i libri giusti, visto i film giusti, e che trovano seducente la figura del carnefice. Non possiamo non prendere atto anche di questo.
Il fatto è che tutte le cose che è nostro dovere fare, continuare a fare e fare sempre meglio non bastano da sole. Alcune risposte alla domanda su quali potrebbero essere gli antidoti a un nuovo sterminio sottolineano giustamente l'importanza delle istituzioni internazionali, parlano di salvaguardia della democrazia interna ai paesi, ecc. Io aggiungerei che una cosa essenziale è, ancora prima, l'isolamento sociale di chi propone discorsi di razzismo violento o negazionista, non nel senso che bisogna uccidere o rinchiudere veramente, materialmente, costoro in uno "sgabuzzino buio", anche se trovo questa risposta veramente molto illuminante e civile.
Lo sgabuzzino buio dev'essere metaforico, devono sentire che non c'è ascolto per quei discorsi. Allora, ricordare, informare, aiutare a identificarsi... Il male però esiste, scusate questa insistenza. Dev'esserci perciò una società in grado di isolare materialmente, anche se non con la violenza, quel genere di posizioni. È l'unico modo che sia in grado di coinvolgere noi, voi, tutti, le scuole ecc. Perché chi esibisce la svastica negli stadi non è necessariamente un povero sprovveduto: può darsi che gli vada bene inveire all'ebreo e fare cose del genere. Non resta dunque altro se non un isolamento implacabile, lasciando però sempre aperta una porta al dialogo, per poter cogliere negli altri anche i più piccoli segni di disponibilità.
Credo che questa frase dello sgabuzzino buio abbia colpito molti di noi proprio perché rappresenta visivamente l'autodifesa della società per prevenire, per impedire che le cose degenerino. Dico questo pensando alla Germania del 1932-'33, cioè alla vigilia e subito dopo la presa del potere da parte di Hitler. La Germania non era particolarmente antisemita, lo era molto di più la Russia, eppure ha fatto molto poco per isolare i nazisti.
Quando sai che uno si iscrive al partito nazista e va a spaccare la vetrina di un negozio ebraico, puoi per esempio, nella tua cerchia amicale, espellerlo. C'è una possibilità di lotta anche nel privato, che è uno strumento forte, se uno si trova escluso per un dato motivo sarà costretto a pensarci, il fatto in sè può far riflettere altri. Certo, la Germania dei primi anni Trenta viveva un momento di grande disgregazione sociale, anche perché invadere o distruggere le strutture dela coesione sociale, dalle associazioni culturali fino alle bocciofile, è stato da subito un obiettivo dei nazisti, che si rendevano ben conto della loro importanza.
Però restavano possibilità di agire, e senza rischi terribili, in molti ambienti della cultura, nelle famiglie, nella vita privata e non è stato fatto se non in pochi casi. Se nelle cerchie socialmente importanti della Germania anni '30 i nazisti conclamati non fossero stati invitati in particolari occasioni, se un prete da un pulpito avesse detto: queste cose non devono esistere... ma l'hanno fatto molto dopo. Ci sono tanti modi con cui la società si può difendere, non c'è solo lo stato, c'è tutta una innervatura di legami sociali che si possono manovrare, ci sono cose che la gente si può inventare, è che lì non si sono inventati quasi niente, in particolare non lo ha fatto la gente rispettabile, che non ha preso posizione oppure ha aderito al nazismo, e così il nazismo ha assunto un'aura di rispettabilità... Cito ancora una volta Hannah Arendt, che dice che a rifiutare di adeguarsi al nazismo non sono state le persone più colte, più "morali" o socialmente più integrate: queste per lo più si attenevano ai vecchi criteri di comportamento senza rendersi conto di quanto ormai servivano a poco in una situazione in cui era lo stato stesso a essere diventato criminale. A rifiutare di lasciarsi contaminare dal nazismo spesso sono state persone che non si distinguevano nè per particolari doti morali in senso tradizionale, nè per particolare cultura, nè per impegno o formazione intellettuale, però avevano capito che il vecchio sistema morale non bastava più, e erano abbastanza forti e forse anche abbastanza arroganti da pensare di avere ragione loro anche se la stragrande maggioranza dei tedeschi sembrava pensarla in modo opposto.
In fondo, in tema di isolamento sociale, non è neppure detto che sia necessario fare parte di un gruppo: ognuno di noi nel suo privato è padrone di accettare o di estromettere chi vuole, anche una singola persona, da sola, può dire: "Tu, che dici queste cose, dal momento che le dici e continui dopo che io ti ho spiegato ... nel mio spazio non hai diritto di cittadinanza".