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«L’Olocausto è unico. La memoria si pratica nella lotta per i diritti»

Intervista al sociologo israelo-tedesco Moshe Zuckermann: «Israele l’ha utilizzata a fini ideologici: il sionismo come risposta»

Moshe Zuckermann è un sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv. È autore di libri sul conflitto in Medio Oriente, tra cui Il destino di Israele. Come il sionismo porta avanti il proprio declino. Fa parte del gruppo di studiosi della storia dell’Olocausto, studi ebraici e studi sul Medio Oriente che nel 2021 ha elaborato la Dichiarazione di Gerusalemme.



Il Sudafrica, lo stato che ha come elemento costitutivo la sconfitta dell’Apartheid, ora accusa di genocidio lo Stato che ha come elemento costitutivo la memoria del genocidio e che allo stesso tempo è accusato di essere uno Stato di Apartheid. Cosa significa per Israele il fatto che sia stato proprio il Sudafrica a portarlo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia?

Vorrei iniziare dicendo che non penso che Israele stia commettendo un genocidio. Quello che sta facendo è già abbastanza grave, una catastrofe umanitaria con moltissimi crimini di guerra. Ma così come non sono del parere che il 7 ottobre ricordi l’Olocausto come qui è stato detto, non penso che quello sta succedendo a Gaza sia un genocidio. Preferirei conservare questa categoria per accadimenti storici come quello che la Turchia commise nei confronti degli armeni, per il Ruanda o anche il sudest asiatico e naturalmente per l’Olocausto. Per me l’uso del termine è determinato anche dall’entità dell’evento.

Israele è però senz’altro uno Stato di Apartheid. Basta dire che ci sono due sistemi giudiziari, uno per Israele e uno per la Cisgiordania. E il fatto che entrambi siano sotto sovranità israeliana è già una prova del fatto che i palestinesi sono discriminati, svantaggiati, ecc. È evidente anche perché Israele non ha mai voluto riconoscere che già l’occupazione stessa viola la legalità internazionale e produce costantemente crimini di guerra, a partire dalla costruzione degli insediamenti che sono illegali, fino ad arrivare quello che da decenni in Cisgiordania si verifica ogni giorno e ogni notte.

Che sia stato il Sudafrica a sollevare l’accusa di genocidio, potrebbe avere un significato simbolico perché ha vissuto l’Apartheid e sa di che si tratta. Ma nella lotta contro l’Apartheid tutto il mondo aveva preso la decisione monolitica che il Sudafrica andava boicottato. E chi non lo faceva era oggetto di sanzioni. Per Israele questo non avviene. Che Israele sia uno Stato di Apartheid non è condiviso da tutti. Se ci fosse una votazione, sarebbero in molti a difendere preventivamente Israele o a mettere veti. Sappiamo che in Sudafrica resta ancora molto da fare perché possa dirsi un Paese davvero liberato. Ma per me resta un’istanza morale, appunto perché ha vissuto la sofferenza di quell’esperienza, quali che siano le ragioni particolari che oggi hanno fatto sentire al Sudafrica l’urgenza di portare Israele davanti alla Corte de L’Aia.

Se la forza dell’atto di accusa si potesse usare rispetto all’Apartheid, sarebbe molto più utile. E riguarderebbe anche la guerra a Gaza che come sappiamo è iniziata con ciò che l’ha preceduta, con il 7 ottobre da cui Israele ha tratto il diritto di difendersi. I crimini di guerra che ora commette sarebbero stati un capo di accusa forte. Ma se qualcosa andava fatto penso che sia un bene che sia stato questo Paese farlo. Non credo però che potrà esserci qualche esito giuridico rispetto all’accusa di genocidio.



Quanto la memoria dell’Olocausto incide sulla narrazione interna israeliana, sia individuale che collettiva, e quanto gli attuali eventi hanno effetti sulla psiche politica israeliana – in un senso o nell’altro: la rimozione del massacro di Gaza, ad esempio, o al contrario l’affermazione di aver subito un genocidio il 7 ottobre come ribadito a L’Aia dal team di difesa.

Se il team di difesa ha detto questo è una distorsione. Semplicemente non è vero. C’è stato chi ha detto che l’esperienza di ebrei massacrati in territorio israeliano per lui ha evocato l’Olocausto. Non è stato né un genocidio né Israele è stato minacciato nella sua esistenza. Ciò che è successo il 7 ottobre è abbastanza grave di per sé senza arrivare a un’affermazione del genere.

Negli anni mi sono occupato molto della strumentalizzazione dell’antisemitismo nella cultura politica israeliana. L’Olocausto e la memoria dell’Olocausto che subito dopo la fondazione dello Stato avevano un impatto molto forte sulla psiche collettiva degli ebrei in Israele, molto presto si sono deteriorati in un’ideologia e così si è arrivati a una strumentalizzazione di questa memoria che ora va nella direzione di apostrofare o rappresentare qualsiasi critica nei confronti di Israele come antisemita. Più che di memoria si tratta di funzionalizzazione per un uso più o meno a proprio favore per questioni che con l’Olocausto c’entrano niente. La maggior parte delle volte questo avviene quando Israele viene criticato per aver fatto qualcosa di illecito. In particolare se le critiche arrivano dall’estero, soprattutto dall’Europa e di certo se arrivano dalla Germania – in effetti dalla Germania a livello ufficiale critiche non ne arrivano – la risposta immediata è “noi abbiamo vissuto l’Olocausto, voi non siete nella posizione di criticarci”.

All’interno di Israele, in politica interna, oggi l’Olocausto ha solo la funzione di autorassicurazione, nel senso di dire che Israele non è mai in torto, non ha mai commesso crimini, abbiamo l’esercito più morale del mondo, tutti quegli slogan che probabilmente conoscete. Si dice quindi “noi non possiamo essere in qualche modo fascisti perché i fascisti ci hanno inflitto quello che abbiamo vissuto, non possiamo essere immorali perché abbiamo vissuto sofferenze a causa dell’amoralità del mondo” e così via.

Oltre a questo però direi che la narrazione interna sull’Olocausto in Israele ha portato una tale quantità di banalizzazioni che mi sento di azzardare la tesi che in Israele l’Olocausto viene banalizzato più di quanto avvenga in qualsiasi altra parte del mondo. Per l’uso inflazionistico che se ne fa, direi che la memoria dell’Olocausto e l’approccio all’antisemitismo nel mondo, in sostanza non hanno niente a che fare né con l’Olocausto né con l’antisemitismo. Anche questo uso sbagliato è una banalizzazione. E siccome la memoria dell’Olocausto in Israele viene usata in modo così teleologico rispetto al sionismo, nel senso di dire che il sionismo è la risposta all’Olocausto, è stata completamente distorta. E Israele non ha mai combattuto l’antisemitismo. Per non essere troppo radicale non voglio dire che l’esistenza di antisemitismo nel mondo era benvenuta, ma non ci si indignava più di tanto perché per l’ideologia sionista quando gli ebrei nella diaspora stanno male, vengono in Israele e questo è ciò che il sionismo ha sempre voluto.

In Israele per altro in realtà non c’è nemmeno un buon lavoro di ricerca sull’antisemitismo. La ricerca consiste unicamente in una statistica che dice che c’è stato un certo numero di eventi nel mondo e questo viene poi presentato ogni anno: è aumentato dell’1,2% o calato del 3,2%, questo è tutto ciò che viene fatto. Ma le ragioni sociali, di psicologia sociale, psichiche, psicologiche e ideologiche del perché esiste l’antisemitismo nel mondo, non vengono studiate quasi per niente.



Allo stesso modo quanto la memoria dell’Olocausto definisce l’Europa di oggi? In termini di politiche e di diplomazia ma anche di rimozione del proprio ruolo strutturale nella persecuzione degli ebrei nei secoli, di antisemitismo profondo fino all’annientamento nazista. Insomma, l’Europa ha mai fatto i conti con se stessa o usa Israele per ripulirsi la coscienza?

L’Europa è un campo ampio, ci sono tanti Paesi e bisogna capire di cosa si parla. Io direi che l’unico Paese che ha fatto davvero un’elaborazione del passato – anche se oggi ormai la cosa si è rovesciata, è diventata scivolosa – è la Germania. Certo va detto anche che la Germania aveva da elaborare più di tutti gli altri Paesi perché quello che ha fatto nel ventesimo secolo è stato così eclatante, basti pensare ai campi di sterminio.

Ma soprattutto nella Germania occidentale l’elaborazione ormai è talmente consolidata, reificata e feticizzata che qualsiasi critica a Israele produce accuse di antisemitismo. Si sono specializzati nel definire antisemita chiunque e in questo modo la vera lotta contro l’antisemitismo viene completamente abbandonata, se non tradita.

Se Israele oggi viene usato per lavarsi la coscienza, non sono in grado di valutarlo perché devo dire che Israele stesso oggi commette un sacco di crimini e questo fa sì che l’antisemitismo oggettivo, intendo l’antisemitismo riferito a Israele, in Europa e nel mondo possa prosperare. Il fatto che oggi in Europa ci sia antisemitismo nei confronti di Israele e degli ebrei – qui parliamo dell’antisemitismo riferito a Israele – dipende molto dal conflitto in Medio Oriente e dal rapporto che Israele ha con i palestinesi. Ma le cose vanno distinte.

Penso che in Europa ci sia un problema enorme perché tanti Paesi che avrebbero molto da elaborare, per esempio i francesi o gli inglesi per quanto riguarda il colonialismo. Ma penso sia avvenuto solo in modo marginale. L’Italia ha avuto anche il fascismo oltre al colonialismo in Africa. La dimensione del colonialismo è stata minore rispetto ad altri, ma non meno crudele. Poi c’è anche il colonialismo classico come in Spagna, in Portogallo o in Olanda.

Il colonialismo e l’imperialismo sono stati un’invenzione dell’occidente e in particolare dell’occidente europeo e sono partiti proprio dalla parte più moderna del mondo (come le guerra mondiali), dalla parte di mondo dove è stato inventato l’illuminismo. Ed è esattamente quello che persone come Horkheimer e Adorno con la dialettica dell’illuminismo hanno cercato di affrontare dal punto di vista teorico. L’Europa in parte si è impegnata, ci sono democrazie funzionanti, ma se si vanno a vedere tutti i crimini che sono stati commessi nel corso della storia, penso che siamo ancora ben lontani da un’elaborazione del passato.

Oggi le persone nemmeno si pongono più il problema che ci sia ancora qualcosa da elaborare. Si chiedono cos’è che dobbiamo elaborare con tutti i problemi che abbiamo? Nel 2014 Angela Merkel ha detto “prendiamoci un milione di profughi”. Quanti Paesi in Europa hanno accolto un numero simile di profughi? E pensando proprio all’Italia, quante persone crepano sulle coste del Mediterraneo? Questo oggi sarebbe un insegnamento da trarre dall’Olocausto e dal colonialismo, che le persone che soffrono la fame, che fuggono dal terzo e dal quarto mondo devono essere fatte entrare nel primo mondo dove ci si abbuffa fino quasi a vomitare.

Cosa nel capitalismo occidentale e europeo abbia generato il terzo e quarto mondo, oggi non se lo chiede più nessuno: quale sia il nesso globale della modalità di produzione che fa sì che l’occidente possa vivere così bene che se non sbaglio il 5% del mondo consuma il 60 o 70% di quello che nel mondo viene prodotto. E questa è anche la logica interna del capitalismo. Se oggi non viene messa in discussione è anche perché non è nata un’alternativa al capitalismo a livello globale. Una vera elaborazione basata su un sistema umanistico alternativo avrebbe potuto produrla. Si ragiona ancora nei termini delle categorie dei crimini commessi e si cerca più o meno di porre rimedio e di materializzare un’espiazione. E all’epoca dando aiuti economici si pensava di aver riparato al danno, senza alcuna riflessione su come si era arrivati alla condizione dei Paesi in via di sviluppo e sulle responsabilità dell’occidente.



Questo rovesciamento da parte della Germania si può considerare una ragione per cui la Germania ora ha deciso di costituirsi alla Corte Internazionale dalla parte di Israele?

Non è una novità. Succede già fin dagli anni ‘50. Negli anni ‘60 c’era la stampa del Gruppo Springer che per un periodo aveva quasi il monopolio dei media tedeschi. E c’erano i cosiddetti Springer Essentials che spiegavano quali erano i valori della stampa Springer: noi crediamo nella democrazia, nello Stato di diritto, ecc. ecc., e al terzo posto c’era che Israele non deve mai essere attaccato, noi ci schiereremo sempre con Israele. La politica tedesca si è accodata. Già nell’accordo sulle compensazioni del 1952 era completamente chiaro non solo che la Germania paga e che in cambio Israele riconosce la Germania, ma che c’era in un certo senso anche un tacito accordo sul fatto che la Germania non avrebbe mai attaccato Israele. Ai media e alla politica si è aggiunto anche che con il rafforzamento delle comunità ebraiche tedesche ogni volta che la Germania diventava troppo critica, veniva alzato l’indice morale: voi siete antisemiti.

Oggi in Germania – lo dico metaforicamente – già solo pronunciando la parola “ebreo” e si vede come tutti impallidiscono, come non siano proprio in grado di affrontare il fatto che proprio la parola “ebreo” sia stata pronunciata, di gestirlo. Io stesso, pur essendo figlio di sopravvissuti all’Olocausto, ho sperimentato personalmente come si può essere definiti un ebreo che odia se stesso o un antisemita. Tedeschi che definiscono me, un ebreo, un ebreo che odia se stesso… Ormai mi sono abituato, non è più un problema, ma naturalmente questo è un sintomo di quello che succede.



Lei fa parte dei 50 accademici che hanno scritto un lettera Yad Vashem chiedendo di condannare gli appelli alla distruzione e allo sterminio a Gaza pronunciati da politici israeliani perché nella storia questo spesso si è rivelato essere il primo passo di crimini che possono arrivare anche al genocidio. Avete ricevuto una risposta che minimizzava la portata di quelle affermazioni. Che tipo di istituzione è oggi lo Yad Vashem? E qual è il significato universale che i firmatari della lettera attribuiscono a questo luogo?

Da un lato è un luogo dedicato alla ricerca e alla memoria e da questo punto di vista ha attraversato diverse fasi. Come museo è nato immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la fondazione dello Stato di Israele già negli anni ‘50, all’epoca era il più importante. Dopo c’è stata la fondazione del Museo dell’Olocausto a Washington e di diversi diversi altri musei. L’impostazione è cambiata. Il concetto originario si è spostato dall’Olocausto come matrice per la lotta per i diritti umani verso il sionismo. Fin dall’inizio però è stato anche un’istituzione strumentalizzata dallo Stato di Israele. Per esempio non esiste alcun politico di una certa importanza che arriva in Israele e che non preso direttamente dall’aeroporto e portato allo Yad Vashem dove viene subito indottrinato per bene perché abbia chiaro cosa può dire e cosa no.

Si vede anche dalla risposta che il direttore dello Yad Vashem ha dato alla nostra lettera. Avrebbe potuto dire, sì lo vedo, voi denunciate come momento universale che proprio gli ebrei che hanno vissuto la catastrofe nel ventesimo secolo avrebbero un dovere di combattere i crimini di guerra e tutto ciò che fa pensare a un genocidio, e qui invece abbiamo politici e personaggi pubblici che chiedono il genocidio – e il modo in cui questo viene chiesto rispetto a Gaza è eclatante, è per questo che abbiamo scritto la lettera. Avrebbe dovuto dire che è proprio così, perché il compito dello Yad Vashem è di condannare questo tipo di cose.

Siccome per dirlo avrebbero dovuto condannare anche il governo, importanti politici, pubblicisti e altri personaggi di spicco, hanno detto che si tratta solo di una minoranza. Cosa vuol dire che è una minoranza? In parte è proprio il governo a parlare in questi termini. E hanno aggiunto che comunque bisogna tenere conto di quello che successo il 7 ottobre. Ma non c’entra niente. Il 7 ottobre è il 7 ottobre e va condannato. Ma è diverso da quello che è successo dopo. Il fatto che esponenti molto in vista della politica israeliana abbiano parlato della distruzione di Gaza, di bombe atomiche e di cose che non è possibile interpretare diversamente da un genocidio e da una pulizia etnica, tutte cose che gli ebrei nel ventesimo secolo hanno vissuto, e che questo sia stato minimizzato nella risposta per me non è solo deludente, ma solo un’altra prova che Yad Vashem pur restando un importante istituto di ricerca e un importante luogo della memoria – e chi viene in Israele dovrebbe vedere il museo perché si può imparare molto – è sempre stato un ente propagandistico al servizio dello Stato di Israele e della strumentalizzazione che fa dell’Olocausto.

Con la lettera abbiamo fatto quel poco che qui in Israele potevamo fare. E la reazione è disperante, un circolo vizioso che non può essere spezzato. Più si commettono crimini, più si cerca di razionalizzarli e più si fa questo, più si rivendica quello che abbiamo vissuto e in questo modo si tradisce la memoria delle vittime nei Lager. Il modo in cui oggi agisce Israele tradisce la memoria delle vittime.



La memoria andrebbe sempre contestualizzata. Quindi come dovremmo affrontare quest’anno la Giornata della Memoria?

I luoghi della memoria non possono farlo perché vogliono essere monolitici, non vogliono affrontare le cose in modo dialettico, ma io parlerei della disumanizzazione delle persone che è avvenuta il 7 ottobre e di quello che ora fa Israele con enorme barbarie e brutalità per dire che dobbiamo lottare per un mondo diverso in cui questo non sia più possibile. Come marxista sono del parere che l’unica possibilità di praticare la memoria dell’Olocausto sia la lotta per una società umana invece di ripetere slogan vuoti nelle giornate della memoria. Ma questo sono io e questo è marxismo, e il marxismo non è una cosa che oggi è particolarmente ben accolta e non penso che succederà.

La mia tesi che ho esposto dozzine di volte è che è necessario ricordare le vittime nella loro condizione dell’essere vittime, così come i colpevoli nel loro essere tali e questo significa che quando parliamo di vittime e di colpevoli, è necessario capire come è possibile che ci siano ancora vittime nel mondo e cosa si può fare perché non ce ne siano più. Ma questo è esattamente ciò che Israele non vuole: siccome noi siamo per così dire il popolo vittima, e gli altri sono i colpevoli, si permette di diventare lui stesso colpevole, e lo fa rivendicando che noi abbiamo vissuto l’Olocausto.



Cosa pensa della proposta di Marek Halter di istituire il 7 ottobre una giornata contro l’antisemitismo?

Se volesse ricordare non solo ‘Olocausto, ma se si potesse celebrare una Giornata della Memoria all’insegna della lotta contro la xenofobia, l’islamofobia, l’antisemitismo, l’antiziganismo, contro il razzismo in tutte le sue derivazioni, direi subito di sì. Una proposta del genere da parte di un sopravvissuto avrebbe una grande forza morale. Ma parlare solo di antisemitismo, degli ebrei e in un momento come questo in cui nel mondo gli ebrei non sono proprio in una buona posizione perché Israele, sionismo e ebraismo vengono confusi e sovrapposti, penso che sarebbe solo un autogol.

Ormai il mondo è andato fuori asse e ovunque si uccide, si discrimina, si tormenta, e è questo va combattuto ovunque. Includerei anche la lotta per la parità di diritti delle donne e degli omosessuali. A Auschwitz non sono stati uccisi solo ebrei, ma anche omosessuali, rom e sinti, includerei tutto questo in una giornata della memoria. Ma questi sono solo sogni a occhi aperti. Israele insisterà perché non venga globalizzata, internazionalizzata e generalizzata, mentre invece è proprio questo che va fatto.



Anche per questo Israele non vuole riconoscere ufficialmente il genocidio degli armeni?

Ci sono due ragioni. Per un certo periodo Israele teneva a avere buoni rapporti con la Turchia e in caso di un riconoscimento del genocidio degli armeni, la Turchia avrebbe aperto una crisi diplomatica. Ogni volta che si levava qualche voce da parte di studiosi israeliani e di altri per includere anche la Shoah degli armeni, veniva subito risposto che non si potevano fare paragoni. Si voleva avere l’unicità: a nessuno al mondo è successo qualcosa come quello hanno subito gli ebrei. Esiste un momento di unicità nell’Olocausto, ma proprio questo andrebbe generalizzato nel senso di dire che gli esseri umani sono in grado di fare questo ad altri esseri umani, che di questo sono capaci.

*Ha collaborato Shmuel Sermoneta-Gertel

Manifesto del 26 gennaio 2024

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