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No, non è "cultura"

Dopo un mese, durante il mio primo viaggio nel Congo orientale (teatro del conflitto più mortale dopo la seconda guerra mondiale), avevo ormai sentito un mucchio di storie orribili: dal cannibalismo forzato ad interi villaggi in cui gli abitanti sono stati bruciati vivi. Non era più facile scioccarmi. Ma uno scambio di battute con una lavoratrice del campo umanitario mi ha freddata. Arrivai a Baraka, una città sul lago Tanganika che era zeppa di soldati congolesi e personale umanitario internazionale, nel febbraio 2007. Ho chiesto ad una scarmigliata donna europea, che lavorava con le Nazioni Unite, le condizioni di sicurezza. Entusiasticamente, lei mi descrisse il progetto video per convicere i rifugiati nella vicina Tanzania che non c'era pericolo a tornare a casa.
"Le milizie straniere se ne sono andate", disse, "Ci sono solo stupri e saccheggi al momento. Nessun attacco".
Sconcertata, ho chiesto: "Lei non considera lo stupro una minaccia alla sicurezza?"  "Lo stupro è così comune qui", ha risposto lei, "È culturale".
Questa fu la prima delle molte volte che ho udito passar sopra agli stupri di massa in Congo definendoli "culturali". La violenza sessuale in Congo è fra le peggiori del pianeta. Le Nazioni Unite stimano che centinaia di migliaia di donne siano state soggette a stupri di gruppo, torturate e tenute prigioniere come schiave sessuali da quando il conflitto ebbe inizio nel 1998. Fu quando i gruppi armati cominciarono ad agire come mafie, combattendo per il possesso dei minerali nel Congo orientale. Per controllare il territorio, le milizie usano lo stupro come un'arma di loro scelta.
Nello scorso maggio, il senato statunitense ha incluso un provvedimento nella sua legge sulla regolazione finanziaria per assicurarsi che le ditte con appalti pubblici non comprino i "minerali del conflitto" dalle miniere controllate dalle milizie in Congo. Tali sforzi sono i benvenuti, per quanto grossolanamente tardivi.
Pure, noi in Occidente troviamo più facile percepire lo stupro come una parte accettata di una cultura non familiare, anziché come un'arma di guerra che dovremmo aiutare a bandire. Troppo spesso i "nemici" diventano tutti gli uomini congolesi, invece che gli uomini con i fucili che terrorizzano la popolazione del Congo. Interpretando il caos e la violenza come "uomini contro donne" o minimizzando la crisi come "culturale" noi operiamo una profonda ingiustizia verso gli uomini congolesi. Invece di dare una mano, gli mandiamo un insulto implicito: È un peccato, è vero, ma... è che voi siete fatti così.
Tale percezione è diffusa. Io lavoro a tempo pieno per le donne congolesi e mi trovo a spendere una inusitata quantità di energie nel difendere gli uomini congolesi: che si tratti del confronto con il tizio pieno di soldi, al barbecue nel cortile del retro, che parla dei "rituali di stupro delle tribù africane" o del confronto con un attivista per i diritti umani, mentre sediamo allo stesso tavolo da conferenze, che si avvita su "le radici culturali della violenza sessuale in Congo".
Margot Wallstrom, l'inviata speciale del segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale durante i conflitti, ha così di recente descritto tale modo di pensare: "il persistente convincimento che la violenza sessuale sia una tradizione, anziché una tattica o una scelta".
Qualsiasi congolese può dirvi che lo stupro non è "tradizionale". Accadeva in Congo prima della guerra, come accade dappertutto. Ma la proliferazione della violenza sessuale è venuta con la guerra. Milizie e soldati congolesi usano ora entrambi la violenza sessuale come un'arma. Lasciata priva di controllo, la violenza sessuale ha trionfato nel Congo orientale devastato dal conflitto. Ciò non rende lo stupro "culturale". Lo rende più facile da commettere. C'è differenza.
Gli analisti spesso usano la frase "cultura dell'impunità" per descrivere il Congo. John Prendergast, che ha lavorato nelle zone di conflitto africane per 25 anni, spiega: "Il primato della legge viene meno ed i perpetratori commettono crimini senza timore di denunce o castighi. Perdurando nel tempo, ciò conduce ad un ulteriore crollo dei codici della società e dello stesso tessuto sociale di una comunità".
I media, il personale umanitario e gli attivisti hanno tutti fallito in modo considerevole nel riportare le storie di uomini congolesi che sono stati uccisi perché si rifiutavano di violentare. Durante le interviste che ho fatto a centinaia di donne, ho udito innumerevoli storie di uomini che hanno preferito, letteralmente, una pallottola in testa piuttosto che violare la propria figlia, sorella o madre. A Baraka, una sopravvissuta raccontava: "Tentarono di costringere mio fratello a stuprarmi. Lui rifiutò e fu ucciso. Così mi violentarono loro".
Descrivere la violenza in Congo come "culturale" è più che offensivo. È pericoloso. La donna europea che minimizzò la violenza sessuale come "culturale" implicava che le donne congolesi devono aspettarsi di essere stuprate. Nel far ciò, è venuta meno alla sua responsabilità di darne l'avviso, come minaccia estrema alla sicurezza, ai rifugiati di ritorno. Più tardi, quello stesso giorno del 2007, incontrai venti donne congolesi che erano tornate dai campi profughi durante i sei mesi precedenti. In quel lasso di tempo, metà di loro erano state stuprate.
"Il relativismo culturale legittima la violenza e ne scredita le vittime, perché se tu accetti lo stupro come culturale, rendi lo stupro inevitabile", ha scritto la signora Wallstrom, in un recente saggio firmato insieme al Ministro degli Esteri norvegese Jonas Gahr Store, "Ciò fornisce uno scudo ai perpetratori e permette ai leader mondiale di scuotersi la violenza sessuale dalle spalle rendendola un'immutabile, per quando spiacevole, realtà".
Quando biasimiamo tutti gli uomini congolesi per la violenza sessuale, non solo implichiamo che lo stupro è qualcosa di inerente al territorio africano, ma evitiamo questioni critiche, in special modo quelle relative al ruolo che noi in Occidente giochiamo.
Chi è stato zitto durante dodici anni di stupri di massa ed altre indescrivibili atrocità?  Noi.
Chi finanzia il massacro con la propria avidità per l'ultimissimo processore ed il telefono "intelligente" prodotti con i minerali che vengono dal Congo?  Noi.
Chi ha aiutato i combattenti a rifornirsi di armi?  Noi.
Ciò ci impedisce di tentare di porre fine alla crisi tramite un coordinato sforzo internazionale. Quando etichettiamo lo stupro in Congo come "culturale" ci siamo sfilati dalla questione. E questa sì che è un'istanza culturale. Nostra.

Traduzione: Maria G. Di Rienzo
Fonte: Centro di Ricerca della Pace