Parlare di pace e di scuola espone a un rischio elevatissimo di fare retorica, rischio da rifuggire sempre, ma soprattutto qui, in questo luogo intitolato a una persona che odiava la retorica e aveva al contrario un’idea molto concreta di cosa fosse la pace e di come l’educazione fosse lo strumento principale per costruirla.
Del resto parlare di pace non è mai semplice, ci si fanno un sacco di nemici, paradossalmente, si passa per vigliacchi, per disfattisti, per opportunisti, quando non proprio per collaborazionisti del nemico.
Lo sperimentò lo stesso Don Milani che nel 1965 subì un processo per apologia di reato per aver scritto una lettera aperta ai cappellani militari, difendendo gli obiettori di coscienza al servizio militare. I cappellani militari in congedo della Toscana avevano definito l’obiezione di coscienza, a quel tempo in Italia ancora un reato punito con la reclusione, una “espressione di viltà”.
Nella memoria che Don Milani inviò ai giudici, dal momento che era già troppo malato per partecipare di persona alle udienze, raccontò il frangente in cui era nata l’idea di scrivere quella lettera, una lettera dei cui contenuti lui si assunse ovviamente la responsabilità, ma che racconta di aver scritto insieme ai suoi ragazzi (usa continuamente la prima persona plurale in quel resoconto) una volta aver letto il comunicato dei cappellani.
“Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita.
Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.
Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».
Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito.
Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare.
Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.
Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d'una «guerra giusta». D'una guerra cioè che fosse in regola con l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.”
Don Milani, che riportava sempre tutto alla concretezza della vita delle persone, non parlava di pace in senso astratto, ma ragionava sulla guerra in termini di numero di morti, di mutilati, di case distrutte, avendo ben chiaro non solo quali fossero le dinamiche di potere che li avevano determinati ma soprattutto chi, storicamente, ne avesse sempre pagato il prezzo più alto.
Però Don Milani aveva anche una fiducia incrollabile nella capacità degli esseri umani, degli individui, di fare scelte giuste non solo per sé stessi, ma anche per la collettività. Per lui era centrale l’idea della responsabilità individuale, a cui ognuno è chiamato, che però può diventare massa d’urto inarrestabile se unita alla responsabilità dell’altro, il “sortirne insieme” che è politica.
E Don Milani credeva che la scuola fosse il luogo in cui si mettono a punto gli strumenti per esercitare consapevolmente questa capacità, attraverso la conoscenza e la riflessione critica sul mondo, e anche per creare l’indispensabile relazione con l’altro. (Nella lettera dei ragazzi di Barbiana agli studenti di Piadena a proposito dell’importanza attribuita nella scuola di Don Milani allo studio delle lingue si legge “Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre”.)
L’esempio di Don Milani è ancora imprescindibile per chi, come noi, intende la scuola in questo senso, come luogo nel quale la pace, così come la democrazia, non si può certo insegnare, ma deve essere vissuta ed esercitata nella valorizzazione delle diversità, nella pratica della cooperazione, nello sforzo incessante per la rimozione degli ostacoli di cui parla l’art.3 della nostra Costituzione, nello stimolo ai più giovani perché prendano la parola e facciano sentire la propria voce, nella coltivazione del dubbio, nell’amore per la verità, nell’accettazione delle proprie e delle altrui debolezze.
Don Milani concludeva così la sua lettera ai giudici:
Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me.
Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità.
Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità, ci salveremo almeno l'anima.
Grazie.
Ilaria Cavazzuti
Massa, 11 marzo 2024