Pace è una parola breve, di sole quattro lettere, una delle più facili da pronunciare. Eppure non ha mai potuto godere di una vera e propria definizione. Come ha giustamente osservato Norberto Bobbio, nella nostra cultura il termine definito è guerra. La pace è sempre stata definita unicamente come la sua negazione. Guerra è il termine forte. Pace è il termine debole. E per questo viene continuamente straziata. In questi giorni accade più di frequente solo perché la guerra ha accelerato il suo corso devastante ed è tornata a minacciare il nostro quotidiano.
Chi non vuole oggi la pace? Tutti la vogliamo! Al punto tale che siamo pronti anche a fare la guerra. A chi minaccia i nostri interessi, agli stranieri, a chi ci sbarra la strada, a chi ci appare diverso … La vogliamo tutta per noi e non ce ne frega niente di quella degli altri.
Pace è una parola da salvare perché di pace abbiamo un disperato bisogno. E le sfide globali del mondo contemporaneo - più di 80 guerre nel nostro pianeta, di molte delle quali non sappiamo e forse non sapremo mai l’esistenza - ci ricordano che la pace non è solo l'assenza di conflitto armato: è un concetto complesso che comprende la giustizia sociale, l'uguaglianza, la cooperazione, il rispetto reciproco e la solidarietà. Non chiedono forse pace gli operai licenziati con un sms?
Non chiedono forse pace gli studenti che sfilano in corteo, purtroppo a rischio di manganellate? E che cosa chiedono le donne violentate dentro le mura domestiche? Chiedono pace. Che, badate bene, non significa tranquillità e nemmeno deresponsabilizzazione.
La pace è diventata una rivoluzione culturale. Anzi: è l’aggiornamento di una rivoluzione culturale iniziata con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che oggi compie 75 anni e viene scritta all’indomani della Seconda Guerra Mondiale per affermare che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Ovvero per dire ai governi che non la sovranità nazionale e l’interesse nazionale, ma la dignità umana e i diritti umani devono essere posti al centro dell’ordine internazionale.
Non avremmo la Dichiarazione Universale, se tre anni prima non fosse stata creata l’Organizzazione delle Nazioni Unite con il compito di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” e “riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’ONU: “Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
Altro che assenza di guerra! La pace è il frutto maturo della giustizia e del pieno rispetto dei diritti umani. “Non basta parlare di pace. Uno ci deve credere. E non basta crederci. Uno ci deve lavorare”, diceva Eleanor Roosevelt sessant’anni fa. La pace è come l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo. Protestiamo quando l’aria è diventata irrespirabile, ci organizziamo quando l’acqua è diventata imbevibile, manifestiamo quando la guerra è già scoppiata. Ma così non serve a
niente. La pace, come l’aria e l’acqua, è un “bene comune globale”: deve essere tutelata e salvaguardata nel tempo e nello spazio. Se vogliamo respirare dell’aria pulita, bere dell’acqua chiara e vivere in pace abbiamo bisogno di agire di conseguenza. In prima persona. Opporsi alla guerra
è necessario, tanto più oggi che rischiamo la terza guerra mondiale. Ma non basta.
Partiamo dalle basi: la garanzia dei diritti civili significa assicurare che ogni individuo abbia libertà di espressione, di associazione e di religione, nonché il diritto a un processo equo e alla protezione legale. I diritti politici, invece, includono il diritto di voto e la partecipazione politica
equa e inclusiva, che sono fondamentali per la stabilità democratica e il rispetto delle istituzioni. Parallelamente, i diritti economici sono crucialiper garantire che ogni individuo abbia accesso a un tenore di vita dignitoso, inclusi il lavoro decente, la sicurezza sociale e l'eliminazione della povertà. I diritti sociali riguardano invece la protezione della salute, dell'istruzione, dell'abitazione e del benessere sociale di tutti i membri della società.
Questi sono i valori della pace e del pacifismo. Che non è una parolaccia, ma un bagaglio culturale. E a quale altra esperienza storica e culturale vi fa pensare la parola “pacifismo”? Al femminismo, dico io.
Pensateci: tanto il pacifismo quanto il femminismo vengono spesso screditati, da taluni ridicolizzati. E come mai? Solo perché adottano il punto di vista di chi subisce oppressioni di tipo sistematico: da una parte la guerra, dall’altra il patriarcato; da una parte le armi, dall’altra le molestie, il gender gap salariale, la violenza. La cultura maschilista e improntata alla sopraffazione dell’altro, che organizza e divide il mondo in due fazioni, chi ha il potere e chi lo subisce, che non persegue il rispetto e il riconoscimento dell’altrə ma il dominio, il possesso e l’annichilimento, è la stessa cultura alla base degli stupri, dei femminicidi, delle molestie, della privazione della libertà di autodeterminazione delle donne. Molte donne la conoscono bene perché da sempre oppresse da un potere che le emargina dalla vita pubblica, e le usa per il profitto attraverso l’oggettivazione del corpo.
Alcune donne conoscono bene il nesso profondo che c’è tra patriarcato, estremismi, sopraffazione e violenza.
Lo vediamo in Afghanistan, dove appena ripreso il potere, i Talebani hanno riportato le donne dentro le case, lontane dalle scuole, sotto veli/armature che non ne mostrino i corpi.
Lo vediamo in Iran, dove la strage delle giovani che si ribellano alle imposizioni misogine del potere islamico non si arresta. In Russia, dove le madri e le mogli scendono in piazza per chiedere i corpi di figli e mariti partiti per combattere un’invasione criminale e scellerata. In Ucraina, dove le madri rimaste sole ad occuparsi di figli e parenti anziani sfidano ogni giorno la guerra per cercare risorse per le proprie famiglie. Nei traffici orrendi di esseri umani, tra i sud e i nord del mondo, segnati da stupri, violenze e schiavitù delle giovani donne. Lo abbiamo visto nei rapimenti e nelle violenze del 7 ottobre e negli sguardi disperati delle madri a Gaza.
Lo vediamo nell’assenza assordante delle donne nei tavoli dei negoziati per la pace: donne che solo tra il 2005 e il 2020 sono state escluse dall’80% degli stessi.
Lo vediamo anche nel nostro Paese apparentemente tranquillo dove senza sosta si registrano molestie sui luoghi di lavoro, violenze fisiche e psichiche nelle case, stupri, femminicidi.
Sono tempi difficili per la Pace, per la Terra, per i diritti delle persone, non solo delle donne, ma delle donne maggiormente. Tempi in cui vengono agite politiche di sfruttamento dell’ambiente e di oppressione degli esseri umani che aggravano la crisi climatica, determinano insicurezza e crescenti disuguaglianze, ipotecano il futuro. Politiche disumane.
“Sono sicura che le donne al governo non permetterebbero la guerra”, affermava la fotografa Letizia Battaglia nel libro scritto insieme a Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia, (Feltrinelli, 2020). E invece no.
Da settembre 2022 in Italia abbiamo, per la prima volta, una donna presidente del Consiglio (anche se vuole essere chiamata il presidente) e il suo governo ha continuato a inviare armi in Ucraina con decreti che, fino al 31 dicembre 2023, non devono neppure passare in Parlamento, nonostante il ripudio della guerra, sancito all’articolo 11 della Costituzione italiana.
Teresa Mattei, la più giovane tra le ventuno donne elette all’Assemblea Costituente, una donna libera, espulsa nel 1938 dalle scuole del Regno perché antifascista e nel 1955 dal Partito Comunista perché antistalinista. In un’intervista del 2006, raccontò: «Al momento della votazione per l’Articolo 11, L’Italia ripudia la guerra, è stato scelto il termine più deciso e forte – tutte le donne che erano lì, ventuno, siamo scese nell’emiciclo e ci siamo strette le mani tutte insieme, eravamo una catena, e gli uomini hanno applaudito. Per questo, quando ora vedo tutti questi mezzucci per giustificare i nostri interventi italiani nelle varie guerre che aborriamo, io mi sento sconvolta perché penso a quel momento, penso a quelle parole e penso che se non sono le donne che difendono la pace prima di tutto non ci sarà un avvenire per il nostro paese e per tutti i paesi del mondo».
E noi, donne e uomini del sindacato, della sinistra, della società civile, per la pace vogliamo combattere. Del resto in questa terra di Resistenza partigiana siamo cresciuti con una dura lezione: camminiamo sul sangue dei nostri nonni, dobbiamo a loro la nostra libertà. E in nome loro difendiamo la pace.
Laura Bacci
Massa, 11 marzo 2024