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L'esperienza dell'Associazione Mondo Solidale e del commercio equo solidale a Massa. Intervista a Federico Bonni

Pubblichiamo questa conversazione con Federico Bonni, responsabile ed animatore dell’Associazione Mondo Solidale di Massa, sulla realtà del commercio equo solidale partendo proprio dall’esperienza dell’associazione.

Federico, nel ragionare insieme sull’economia solidale, credo che sia importante raccontare la storia dell’Associazione Mondo Solidale che proprio quest’anno ha festeggiato i suoi dieci anni di presenza a Massa. Una presenza significativa che ha aiutato tante altre associazioni locali ad elaborare al proprio interno la consapevolezza del consumo critico e del commercio equo solidale.

Mondo Solidale è un’associazione di promozione sociale che nasce nel 1997 grazie a un gruppo di persone appartenenti all’Ufficio Missionario e all’Azione Cattolica attive sul territorio apuano sui temi della solidarietà internazionale.
Il desiderio di sensibilizzare il territorio sugli squilibri tra paesi di Nord e Sud del mondo, sostenendo una valida alternativa quale il commercio equo e solidale, si concretizza con l’apertura della Bottega del Mondo “Mondo Solidale” in via Zoppi, 14.
L’universalità del commercio equo e solidale, e la volontà dei soci fondatori, fa si che l’associazione ben presto si apra a varie realtà del territorio e a tutti i semplici cittadini. Tuttavia i primi anni, complici la scarsa esperienza e la poca conoscenza in ambito territoriale del commercio equo e solidale sono una causa di limite allo sviluppo dell'associazione che aveva provato ad ingrandirsi tramite l'affitto di un secondo fondo, cui però dopo un anno deve rinunciare.
Nel 2001 viene realizzato un primo corso di formazione aperto alla comunità apuana, corso al quale partecipeno circa 35 persone di cui alcune poi rimangono all'interno dell'associazione come volontari. Contemporaneamente iniziano le prime adesioni: alla Rete Lilliput, al Coordinamento Toscano Botteghe del Mondo e all’ Assobotteghe.

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 98 del 4 settembre 2007


Nel corso della sua evoluzione la casa comune, il pianeta Terra, si avvicina ad una crisi dal cui superamento dipende la sopravvivenza dell'uomo, crisi la cui portata appare esaminando l'aumento della popolazione, l'incontrollata crescita industriale e il deterioramento ambientale con le conseguenti minacce di carestie, di guerra e di un collasso biologico.
L'attuale tendenza nell'evoluzione del pianeta non dipende soltanto da leggi inesorabili della natura, ma è una conseguenza delle deliberate azioni esercitate dall'uomo sulla natura stessa. L'uomo ha deciso, nel corso della storia, il suo destino attraverso decisioni di cui è responsabile; ha cambiato il corso del suo destino con altre deliberate decisioni, attuate con la sua volontà. A questo punto deve cominciare ad elaborare una nuova visione del mondo.

Come economisti abbiamo il compito di descrivere e analizzare i processi economici così come li osserviamo nella realtà. Peraltro nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche: il potere e quindi la responsabilità degli economisti sono perciò diventati grandissimi.
Nel passato la produzione di merci è stata considerata un fatto positivo e solo di recente sono apparsi evidenti i costi che essa comporta. La produzione sottrae materie prime ed energia dalle loro riserve naturali di dimensioni finite; i rifiuti dei processi invadono il nostro ecosistema, la cui capacità di ricevere e assimilare tali rifiuti è anch'essa finita.
La crescita ha rappresentato finora per gli economisti l'indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare che l'aumento dell'industrializzazione in zone già congestionate può continuare soltanto per poco: l'attuale aumento della produzione compromette la possibilità di produrre in futuro e ha luogo a spese dell'ambiente naturale che è delicato e sempre più in pericolo.
La constatazione che il sistema in cui viviamo ha dimensioni finite e che i consumi di energia comportano costi crescenti impone delle decisioni morali nelle varie fasi del processo economico, nella pianificazione, nello sviluppo e nella produzione. Che fare? Quali sono gli effettivi costi, a lungo termine, della produzione di merci e chi finirà per pagarli? Che cosa è veramente nell'interesse non solo attuale dell'uomo, ma nell'interesse dell'uomo come specie vivente destinata a continuare? La chiara formulazione, secondo il punto di vista dell'economista, delle alternative possibili è un compito non soltanto analitico, ma etico e gli economisti devono accettare le implicazioni etiche del loro lavoro. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta e ad unirsi, per assicurare la sopravvivenza umana, agli sforzi degli altri scienziati e pianificatori, anzi di tutte le donne e gli uomini che operano in qualsiasi campo del pensiero e del lavoro. La scienza dell'economia, come altri settori di indagine che si propongono la precisione e l'obiettività, ha avuto la tendenza, nell'ultimo secolo, ad isolarsi gradualmente dagli altri campi, ma oggi non è più possibile che gli economisti lavorino isolati con qualche speranza di successo.
Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti o del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra. Dobbiamo elaborare una economia della sopravvivenza, anzi della speranza, la teoria di un'economia globale basata sulla giustizia, che consenta l'equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti, attuali e futuri. È ormai evidente che non possiamo più considerare le economia nazionali come separate, isolate dal più vasto sistema globale.
Come economisti, oltre a misurare e descrivere le complesse interrelazioni fra grandezze economiche, possiamo indicare delle nuove priorità che superino gli stretti interessi delle sovranità nazionali e che servano invece gli interessi della comunità mondiale. Dobbiamo sostituire all'ideale della crescita, che è servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione più umana in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della sopravvivenza e della giustizia.
Attualmente una minoranza della popolazione della Terra dispone della maggior parte delle risorse naturali e della produzione mondiale. Le economie industriali devono collaborare con le economie in via di sviluppo per correggere gli squilibri rinunciando alla concorrenza ideologica o imperialista e allo sfruttamento dei popoli che dicono di voler aiutare. Per realizzare una giusta distribuzione del benessere nel mondo, i popoli dei paesi industrializzati devono abbandonare quello che oggi sembra un diritto irrinunciabile, cioè l'uso incontrollato delle risorse naturali, e noi economisti abbiamo la responsabilità di orientare i valori umani verso questo fine. Le situazioni storiche o geografiche non possono essere più invocate come giustificazione dell'ingiustizia.
Gli economisti hanno quindi di fronte un compito nuovo e difficile. Molti guardano alle attuali tendenze di aumento della popolazione, di impoverimento delle risorse naturali, di aumento delle tensioni sociali, e si scoraggiano. Noi dobbiamo rifiutare questa posizione e abbiamo l'obbligo morale di elaborare una nuova visione del mondo, di tracciare la strada verso la sopravvivenza anche se il territorio da attraversare è pieno di trappole e di ostacoli.
Attualmente l'uomo possiede le risorse economiche e tecnologiche non solo per salvare se stesso per il futuro, ma anche per realizzare, per se e per tutti i suoi discendenti, un mondo in cui sia possibile vivere con dignità, speranza e benessere. Per ottenere questo scopo deve però prendere delle decisioni e subito. Noi invitiamo i nostri colleghi economisti a collaborare perché lo sviluppo corrisponda ai reali bisogni dell'uomo: saremo forse divisi nei particolari del metodo da seguire e delle politiche da adottare, ma dobbiamo essere uniti nel desiderio di raggiungere l'obiettivo della sopravvivenza e della giustizia.

Affarismo ed egoismo sono i due elementi principali, o almeno i più vistosi, del berlusconismo come si è sviluppato nella politica italiana in questi ultimi dieci anni. Sono d’accordo sacerdoti, giornali e opinionisti cattolici. Per quanto appare da parole e azioni, si tratta di un egoismo individuale e di gruppo. Questo porta molti a considerare il berlusconismo una sorta di fascismo, ben diverso, naturalmente, da quello mussoliniano, che pur essendo dispotico agitava un’ideologia di grandeur nazionale, che nel secolo scorso incontrò molti consensi.

Il sociologo e psicanalista austriaco Wilhelm Reich, a differenza di quel che era il comune sentire, sosteneva nel 1933 che «"il fascismo" è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e della sua concezione meccanicistico mistica della vita». E aggiungeva: «Il carattere meccanicistico mistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa». È un errore considerare il fascismo prodotto di una etnia o di un popolo o di «una piccola cricca reazionaria»: è un fenomeno «internazionale che corrode tutti i gruppi della società umana di tutte le nazioni».

Ben conscio della responsabilità di queste affermazioni, lo studioso sottolineava gli aggettivi «internazionale» e «tutte», affermando tra l’altro che il fascismo «non è un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emozioni "ribelli" e idee sociali reazionarie». Lasciamo naturalmente al sociologo, che spiegava la sua teoria in «Psicologia di massa del fascismo», la sua intera responsabilità, ma alcuni elementi, anche in questo rapido riassunto, sono evidenti anche oggi.

Il fascismo mussoliniano aveva, in effetti, un Credo; si basava su giuramenti; propugnava una sua mistica; aveva parole d’ordine come credere, obbedire, combattere, ed aveva divise, emblemi e riti che colpivano l’immaginazione e i sentimenti popolari (ovvero quelle masse di individui che secondo Reich hanno già il fascismo dentro di sé: ribelli e reazionari insieme). Il berlusconismo è diverso? È un fatto che, negli ultimi decenni, a partire dagli anni in cui ancora non era movimento politico ma solo un insieme di società di affari, ha avuto ed ha ancor oggi copiosi consensi, ha ottenuto i voti di vere masse di elettori.

Può essere che abbia in sé ribellione (non rivoluzione, che è cosa diversa) e insieme idee sociali reazionarie? L’egoismo e l’affarismo - in pratica, tutto il potere al denaro - appaiono chiaramente attraverso i mass media, peraltro aggrediti ogni giorno con l’accusa di essere prezzolati, mentitori e pregiudizialmente ostili.

Le espressioni berlusconiane «Forza Italia» e «Popolo della libertà» non indicano due partiti o movimenti con una ideologia fondante, sia pure di tipo mussoliniano, ma sono slogan adattabili a realtà diverse che vanno dallo sport al qualunquismo ovvero al mercato. È sempre più usata la frase «favorire i consumi». Il cervello, l’intelligenza, lo studio sono ai margini: si lavora e si è pagati per consumare. Altro che figli di Dio. La vita è la vita del consumatore, non dell’uomo pensante oltre che consumante. Lo spirito non è nemmeno ai margini: non se ne parla affatto. Intendo lo spirito sia in senso laico, sia religioso.

Perfino i colori dei seguaci di questi movimenti sono indicativi della mistica del berlusconismo: gli azzurri (che richiamano gli sport e quindi grandi masse di manovra) e la bandiera biancorossoverde attraversata dal loro slogan; ma anche il continuo riferimento alla «gente» in maniera indeterminata e l’inno «Forza Italia» cantato con la destra sul petto come in un rito religioso. Rari e d’occasione i richiami ai lavoratori, al popolo, ai cittadini, che erano invece d’obbligo nei partiti tradizionali, democristiano, socialista, comunista, repubblicano e liberale.

Il berlusconismo si manifesta quindi come ribelle e nello stesso tempo con idee sociali reazionarie? La spinta a spendere, non a lavorare per emanciparsi, cioè non a lavorare per essere ma a lavorare per consumare (che è un subdolo attacco ai valori del cristianesimo); le affermazioni del tipo «meno libertà in cambio di più sicurezza»; l’avversione per la democrazia parlamentare (lo notano anche eminenti politologi cattolici), il tentativo di restringere sempre più il numero dei partiti dell’opposizione, di limitare la libertà di cronaca dei mass media e di non concedere ai cittadini il diritto di scelta sulle schede elettorali: tutto questo è fascismo?

Mario Pancera

di Serge Latouche

Parliamo di decrescita. La decrescita è un progetto politico, non è una crescita negativa. Non va confusa la "decrescita scelta" o la "scelta della decrescita" con la decrescita forzata. Parafrasando la filosofa tedesca Hannah Arendt - che diceva che non c'è niente di peggiore di una società lavorista senza lavoro - non c'è niente di peggiore di una società della crescita senza crescita, visto che una tale società si basa su un modello di economia che ha come unico fine una crescita illimitata

Si è parlato di questa crisi come di una crisi finanziaria. In realtà si è trattato di una classica crisi da ingiusta distribuzione della ricchezza come tutte le altre vissute dal capitalismo. Anche questa volta la questione finanziaria è stata la complicazione che ha messo la crisi allo scoperto, ma se vogliamo capire cosa è successo dobbiamo ripartire dalla globalizzazione.