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Tratto da Notizie minime della nonviolenza, n. 61 di lunedì 16 aprile 2007


- "Una città": Nel Primo Uomo, il romanzo rimasto incompiuto (il cui manoscritto Camus aveva con sè al momento dell'incidente mortale) l'Algeria, fino a quel momento assente o quasi nei suoi romanzi, diventa protagonista assoluta...
- Olivier Todd: In effetti, per parlare di Camus e dell'Algeria dobbiamo cominciare dalla fine, da Il Primo Uomo, che esprime al contempo la sua speranza e la sua disperazione per la guerra in corso in Algeria. Tema del libro è la vita dei petits blancs, i francesi poveri d'Algeria, che nessun intellettuale, a differenza di Camus, conosceva realmente o prendeva in considerazione.
Lui era uno di loro, essendo nato in una famiglia povera: la madre, vedova di guerra, arrotondava la magra pensione facendo la domestica. Quando scrive che in casa il burro e lo zucchero si compravano a etti, questa povertà mi pare del tutto evidente. Quindi, sapeva chi erano i petits blancs. In un editoriale dell'"Express", scritto per spiegare i petits blancs d'Algeria ai petits blancs, ai grands blancs, ai moyens blancs di Francia, sostenne: "I francesi d'Algeria non sono tutti ricchi, col sigaro in bocca, sempre a bordo di una Cadillac".
Una scena del libro mi pare molto eloquente perché evidenzia il punto di vista di Camus sugli eventi d'Algeria. A un certo punto, il protagonista, cioè Camus stesso, va a trovare un vecchio colono, che gli dice: "Lei sa com'è in Algeria: un giorno ci si sbrana e il giorno dopo ci si riconcilia". Mentre scrive Il Primo Uomo a Lourmarin, in Provenza, Camus ritiene che tutto sia ormai finito, che sua madre sarà costretta a rientrare in Francia perché sarà l'opzione indipendentista a prevalere.
Non sarà quindi possibile quell'unione tra l'Algeria e la Francia all'interno di un organismo più vasto che lui, utopisticamente, auspicava.
Cosa avrebbe voluto Camus? Che si trovasse un modus vivendi che permettesse ai pieds-noirs di restare in Algeria. Sognava un sistema egualitario, fraterno, che si sarebbe forse potuto realizzare prima della guerra.
Probabilmente, la sua era una chimera, ma, a pensarci bene, è la stessa cosa che tutti noi oggi auspichiamo per il Sudafrica: la nascita di uno stato multirazziale e multietnico, in cui persone di origine europea e africana possano vivere gli uni accanto agli altri.
Comunque, la storia dei rapporti fra Camus e l'Algeria è più complicata.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che fu iscritto al partito comunista algerino dal '35 al '37, e ne venne espulso per anticolonialismo. Seguendo gli ordini di Parigi, che obbediva a Mosca, il partito algerino aveva messo la sordina alla lotta anticoloniale, che invece Camus rilanciava dalle colonne di "Alger Republicain" e di "Soir Republicain", i due giornali in cui esordì come reporter. Camus aveva preso coscienza della disuguaglianza prodotta dal sistema coloniale. In un reportage dalla Cabilia, molto bello, scriveva che i berberi vivevano in condizioni di semischiavitù. Questa è una cosa molto importante. Si dimentica che aveva difeso i militanti nazionalisti algerini, fra cui alcuni sceicchi un pò corrotti. Si dimentica che aveva appoggiato il progetto Blum-Viollette nel '36, con cui il governo del Fronte popolare voleva estendere i diritti politici all'elite musulmana.

Pubblicato su "Il Manifesto" del 15 giugno 2007
Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, «banalità del male». Fa parte invece dell'imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l'una e l'altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio. «Macelleria messicana», ecco cosa fu, parola del vicequestore, l'agguato alla scuola Diaz. «Metodi cileni», commentò all'epoca Massimo D'Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell'Ulivo. Absit iniuria verbis: sarà facile, per i post-colonial latinoamericani di oggi, definire d'ora in poi «metodi italiani» eventuali efferatezze in casa loro. E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.

[Riproponiamo il seguente testo di, apparso originariamente in "Dimensioni", n. 56-57, dicembre 1990, e disponibile nel sito www.aldocapitini.it]


… non può esservi incongruenza fra i mezzi e i fini dell'azione volta al rinnovamento, poiché l'uso di mezzi incompatibili finisce per modificare e stravolgere i fini; la violenza, la coercizione, la dittatura, non sono mezzi per il raggiungimento della libertà. "Dobbiamo pur vivere queste poche ore o pochi anni, esplicare al massimo la nostra fede e i nostri compiti, e se, invece, diciamo a noi stessi: lasciate che venga un'ondata di materialismo, di dittatura, di economicismo di massa, lasciate che trionfi il regno della necessità, così dovrà essere per decenni e forse per secoli; poi verrà il regno della libertà; questo ragionamento non può essere accettato da chi vede nella produzione e nella affermazione del valore spirituale il centro della realtà" (10).
Il fondamento filosofico della critica capitiniana del totalitarismo fascista, che subordina la persona allo stato, e di quello sovietico, che stravolge il rapporto fra mezzi e fini, può essere individuato in "un certo moralismo kantianeggiante e antistituzionale", in quel "teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano", che costituisce il riferimento essenziale dell'elaborazione teorica di Capitini negli anni della Normale…

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione questo intervento inviato come contributo scritto al convegno su "Nonviolenza e politica" svoltosi a Firenze il 5-7 maggio 2006. Maria G. Di Rienzo è una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Università di Sidney (Australia); è impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]


"Come fa questo criminale ad avere venti milioni di complici?". Con queste parole, ad un certo punto della notte del 10 aprile, una notte che abbiamo passato svegli ad interrogarci sul risultato delle elezioni politiche, il mio compagno ha messo il dito nella piaga.
Non è da oggi che rifletto sul consenso che circonda il dominio, ma ora sto concentrando la riflessione sul "fenomeno Italia", un fenomeno che per me ha i volti dei miei vicini di casa, del fruttivendolo e del vigile urbano, dell'impiegata all'ufficio postale e della giornalaia.
L'analisi per cui costoro avrebbero beneficiato a livello economico dei cinque anni di governo della destra è evidentemente fallace. Non fanno parte del ristrettissimo numero di benestanti che possono fare a meno di una sanità o di una scuola pubblica, di politiche eque sul lavoro, di servizi territoriali puliti ed efficienti. L'analisi per cui il voto alla destra sarebbe un voto "valoriale" è parimenti inadeguata: con il governo Berlusconi abbiamo assistito al picco di circa vent'anni di distruzione di senso comune e valori condivisi. L'Italia che ci si è mostrata nelle aule parlamentari e sui media è un'Italia rancorosa, ignorante, volgare, dispotica. Nè, rispetto alla regione in cui vivo, mi pare tenga la spiegazione relativa alle aree produttive del paese, che avrebbero votato a destra per garantirsi esigenze connesse a viabilità ed infrastrutture.