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Non passa giorno senza avere notizia di donne torturate e uccise: torturate e uccise dai mariti, dai fidanzati, dagli ex-compagni, dagli acquirenti e dagli imprenditori del mercato schiavista di carne umana, dal maschilismo che è la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza, di ogni potere criminale, di ogni relazione di dominio e di sfruttamento, di ogni barbarie, di ogni pulsione e ideologia e condotta e struttura onnidistruttiva.

Motivato, circolare, inclusivo. Competente. Attento a nominare i punti di criticità, ma senza espellerli. Un movimento globale. Dopo la grande manifestazione, che ha portato in piazza a Roma 200.000 persone contro la violenza maschile e i femminicidi, domenica le donne hanno letteralmente riempito la facoltà di psicologia. Per l’assmblea plenaria, l’aula magna non è bastata, più di 1.300. Nonostante la fatica e l’impegno di un’intera giornata di discussione, se non ci fossero state le partenze di chi veniva da fuori, si sarebbe continuato ancora: a confrontarsi, a progettare. Chi è rimasto a Roma, ha continuato a parlare nelle piazzette di San Lorenzo, intorno a una bottiglia di birra, che passava di mano in mano.

Non è stato perso nulla, di quello che è stato fatto, e tutto è nuovo. Questo l’effetto diffuso e condiviso della manifestazione NonUnaDiMeno contro la violenza maschile sulle donne del 26 novembre. Una forza viva, sfidante, immensa. Una gioia irrefrenabile.

Lo dicono le donne di tutte le età, dalle bambine alle bisnonne, almeno tre generazioni dai capelli dai tanti colori che sfilavano sorridenti, allegre, determinate, per nulla obbedienti. Donne come me, felici di vedere che il lungo cammino non si è smarrito nei mille rivoli di anni confusi e difficili. Ragazze che sono venute a Roma a manifestare per la prima volta. Da sole, in piccoli gruppi. Era giusto farlo, rispondono alle domande, non se ne può più. Sono loro che guardano al futuro, con occhi diversi, eppure legati a questa storia comune. Lo dicono gli uomini della sinistra, che per una volta sono venuti senza strumentalizzare.

Da più parti si dice che saranno le donne a cambiare le religioni. La visione maschilista che spesso le abita, che mette al centro di ogni cosa l’uomo. Saranno le donne certo, se accanto avranno uomini che sapranno camminare al loro fianco, per segnare altri passi, condividere uguaglianza e parità di diritti e doveri, rivedere le interpretazioni dei testi sacri che per secoli le hanno raccontate come genere sottomesso o da sottomettere, riscoprire che ci può essere un'altra lettura, una lettura che sa leggere il rispetto nei confronti delle donne e degli uomini. In maniera egualitaria.

Correva l’anno 2012 e il mese di aprile quando, per la prima volta, scrivemmo un pezzo su Combonifem magazine, sottolineando la necessità di un linguaggio che declinasse alcune parole al femminile, riconoscendo un cambiamento dei tempi certo, ma, ancora di più, il fatto che diverse cariche istituzionali e professioni lavorative venivano ricoperte da donne. Da qui, commentavamo, la necessità di avere termini rispondenti alla realtà. Perché chiamare le persone per nome significa riconoscerle.

La vicenda che ha visto coinvolte la Filcams Cgil e la Camera del Lavoro di Milano, a proposito dell'iniziativa della Coin di mettere in vetrina ragazzi e ragazze per pubblicizzare prodotti da spiaggia, si può considerare emblematica delle implicazioni ambigue, contraddittorie, che si porta dietro, con evidente esitazione a nominarle, il movimento che da alcuni anni si batte contro la mercificazione del corpo delle donne.